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“L’invenzione del cavallo”

Renato Oliva, L’invenzione del cavallo (storia di Alex). Bollati Boringhieri, Torino, pp.170.

Scorrendo la sintesi di copertina, mi appare per specialisti questo libro che mi è stato donato con simpatia. E’ la storia di Alex che deve "inventare" un cavallo. O forse quell’invenzione, quel costruire, ideare con il pensiero, come indica l’etimologia dell’in-venire latino, sarà un cammino fra le emozioni, per "ritrovare" piuttosto il cavallo perduto?

L’autore insegna Letteratura inglese nell’Università di Torino, ma è anche psicologo di formazione junghiana. Di Jung io conosco, all’ingrosso, la disputa con Sigmund Freud, e poi la rottura, sulla funzione della sessualità nella psicoanalisi. E la teoria degli "archetipi" universali, l’inconscio collettivo in cui sono depositate le esperienze fondamentali dell’umanità, raggiungibili attraverso i simboli nascosti nei sogni.

Ma alla lettura, che pure prevedo difficile, non posso sottrarmi. Qual è la sofferenza di Alex? Quale l’analogia con il nostro dolore, di sani? Che cosa rappresenta il cavallo che lui va cercando? Se siamo, tutti, un impasto di salute e di malattia, di normalità e di follia, di ombra e di luce, abbiamo anche noi un nostro cavallo da inventare, da ritrovare? Alla lettura mi spinge, infine, una ragione più personale.

L’Alex che si rivolge all’analista è uno studente di Medicina di ventitré anni, dall’aspetto gradevole. Ma la storia che racconta è davvero terribile. Il giovane è in ansia, irrequieto, depresso. Soffre d’insonnia, teme di perdere la testa, di spaccare tutto, fino ad aggredire in casa il padre con un coltello. Anche fantasie di suicidio lo assalgono. I farmaci prescrittigli dal neurologo non servono a molto.

Si sente solo, rabbioso, invidioso, chiuso in se stesso. Il rapporto con la madre, morta da poco per un tumore, è stato disastroso: fuori, a scuola, lei lo voleva, da bambino e da adolescente, competitivo, vincente, ma dentro casa lo voleva affettuoso e remissivo. Il padre è apatico, vigliacco, inadeguato. Alex si sente orfano, senza padre né madre. La casa è una prigione: vive come in gabbia, ma non sa uscirne.

I rapporti con le donne sono fallimentari. Per Alex, scrive lui stesso nel diario, con le donne sono possibili "solo due comportamenti: o fare il sadico molto aggressivo o comportarsi da masochista e subire". Per questo le relazioni con Antonella, Baba, Angelica, Barbara, Chiara, Eva, durano poco. Si sente potente quando riesce a considerare la donna "soltanto come un corpo", o addirittura come "certe parti di un corpo" da usare, o di cui abusare. Quest’uso senz’anima del corpo femminile non è poi molto lontano dalla masturbazione, a cui ricorre in modo ossessivo.

Le sedute di analisi si preannunciano come uno scontro.
Alex non ha bisogno delle interpretazioni dell’analista, "le cose le capisco da solo", afferma orgoglioso, e minaccia di sospendere la cura, che poi si trascina lunghissima. Proseguendo nella lettura, io vi colgo, in più passi, i tratti di Zeno Cosini, l’inetto per antonomasia, nella letteratura del Novecento.

L’analista però, un quarantenne, con barba e capelli lunghi, dotato di humour, non pubblica per vendetta il "romanzo familiare" del suo paziente, come il Dottor S. di Italo Svevo. Confessa invece di sentirsi impegnato in un cammino comune, verso la guarigione, per far acquisire il senso di realtà al giovane che a lui è ricorso. Talvolta, deluso e depresso, irritato dalla maschera cinica di quell’intellettuale freddo e superiore, rischia di lasciarsi coinvolgere dalla sua sofferenza, di sottrarre energie agli altri pazienti (e a se stesso). In qualche momento si sente scaricare addosso, nel transfert, la disperazione di Alex.

Ma l’alleanza terapeutica regge, l’analisi, da scontro, diviene lentamente un incontro. Scriverne, di comune accordo, a metà della cura, è la "testimonianza della comune traversata di un tratto di Terra Desolata". "Soltanto a metà?", commenta Alex, alla proposta, dopo le sedute durate tre anni. "Potremmo ritenerci fortunati se fossimo già a metà", gli risponde, incoraggiante, l’analista.

Che cosa è avvenuto tra il dolore, il sospetto, l’aggressività dell’inizio, e la "stretta di mano", il "grazie", il "riso" finali, anche se non ancora (o già?) a metà della cura, e intrisi pur sempre di sofferenza? Ci sono i sogni raccontati, i disegni tracciati, le pagine scritte del diario, che trasudano ansia, paura, rancore, e in cui poi, piano piano, si apre un varco alla speranza.

E c’è il colloquio con l’analista. E’ il complesso di madre negativa (la madre strega) che riduce sterile la terra di Alex, un deserto privo di vita: questa è la diagnosi. Gli sono mancate sia la funzione materna, dell’accoglienza amorosa, sia quella paterna, della guida autorevole. In lui c’è scissione fra le funzioni intellettive e di sentimento. Le fantasie aggressive e di onnipotenza non sono che la compensazione del suo atteggiamento passivo, dipendente, di odio impotente. "Maschile" e "femminile" sono confusi, la donna è un corpo dis-animato da usare. Quella vita è senza storia, senza direzione, senza meta.

L’alleanza terapeutica conduce il giovane al cambiamento, a sapersi muovere, con fatica, sul piano della realtà. Rinuncia al dualismo assoluto: scopre che la donna non è né fata né strega, che in lei convivono il negativo e il positivo.

Con Eva, e poi con Alice, sesso e sentimento gradualmente s’incontrano: è un piacere diverso, ha "più senso", l’amore è un’esperienza anche spirituale. Persino nella Medusa, la madre del primo disegno, dietro un volto di pietra, c’è una donna sofferente e infelice. Il padre diventa un onesto operaio metalmeccanico, emigrato dal Friuli a Milano, nella grande metropoli.

Acquista fiducia, prima dentro casa, dove lo spazio, concavo, è più protettivo, poi nelle strade della città, dove lo spazio è convesso. Alex esce lentamente dall’estremismo patologico che reprime le emozioni (come fa l’Io-computer della ragione moderna), o, schiavo, se ne lascia travolgere. Il vecchio Io muore per rinascere sotto nuova forma. La seconda nascita è però una scelta demandata a ciascuno di noi. Anche i fallimenti si possono a poco a poco accettare. Dalla bottiglia del secondo disegno, dalla prigione, si può uscire.

Il "cavallo", si sarà capito, è la tendenza vitale, la libido, la forza positiva di cui il soggetto sente confusamente il bisogno. Prima è inventato nel sogno come cavallo meccanico, razionale, artificiale. Poi è ritrovato nelle profondità naturali dell’inconscio come cavallo vispo, nero, dalla bella criniera, che galoppa liberamente. E’ l’immagine di cavallo che consentirà di riconoscere il cavallo vivo e reale, quando Alex sarà in grado di incontrarlo per le strade del mondo.

Questa non può essere una recensione. Ci vorrebbe uno psichiatra, o uno psicoanalista freudiano, per discutere valore e limiti della Psicologia Analitica d’impostazione junghiana. Ma la lettura, impegnativa nelle prime pagine, poi coinvolge, e ci interroga.

Nelle parole Anima, Ombra, Persona, senti vibrare un soffio nuovo, il volto magico dell’inconscio che oltrepassa il razionalismo dellascienza e della psicologia moderna. Del disagio psichico si rinuncia a una spiegazione causale (perché succede?), per tendere a un significato finalistico (a che scopo succede?). In questo modo l’uomo individuale "porge la mano" (C.G.Jung) all’uomo storico e universale, all’eternità della natura e della religione che vivono in noi, sacre, indistinte.

In un momento di crisi, quando il "buco nero" sembra inghiottire Alex, l’analista gli legge alcuni versi della "Terra Desolata" di Eliot: "Dissi alla mia anima, stai quieta, e aspetta senza speranza, / Perché la speranza sarebbe la speranza della cosa sbagliata; / Aspetta senza amore, perché l’amore sarebbe amore per la cosa sbagliata. / C’è fede tuttavia. Ma fede, speranza e amore / Sono tutti nell’attesa."

Alla "disperata speranza" dei versi reagiamo con commozione anche noi, non soltanto Alex e l’analista. Ma possiamo, questa è la domanda, "nel mondo diventato adulto" (Dietrich Bonhoeffer) della modernità, riaffidarci all"apriori religioso" dell’uomo? Dio, per molti di noi, non è più un "tappabuchi" capace di rispondere alle domande universali del dolore, della morte, della colpa. Avvertiamo nostalgia del sacro e della sua unità, ma non vogliamo rinunciare ai guadagni della secolarizzazione e delle sue distinzioni.

Ad Alex che ritiene, alla fine, l’ideologia cristiana più umana di quella neocapitalistica in cui viviamo ("meglio il rosario che il necrologio sul giornale"), Ernesto Balducci risponde di non c

hiedere al Vangelo ciò che non può dare: "Non si può chiedere al Vangelo una dottrina antropologica, né una dottrina morale, né una dottrina ascetica. Ciò che nel Vangelo appartiene all’antropologia, alla morale, all’ascetica, appartiene alla cultura che fece da contesto all’annuncio dell’evento pasquale. E’ improprio chiedersi quale sia la concezione cristiana del corpo."

Ma se qualcuno, attraverso il rosario, il "mito" cristiano, (o di altre religioni), si sente un poco meglio, siamo autorizzati a modernizzarlo a marce forzate? O dobbiamo accettare di essere antichi e medievali per certi aspetti, moderni per altri, postmoderni per altri ancora? Questa è la seconda domanda.

James Hillman, seguace illustre
di Jung, ritiene che i racconti
di storie abbiano un grande valore terapeutico, e formativo, per tutti.

I miti greci, romani, nordici, le fiabe, la Bibbia, raffigurano i motivi che sono alla base della psiche occidentale, ci presentano i modi archetipici dell’esperienza. Il "c’era una volta" rafforza la parte immaginativa della personalità, insidiata dalla gabbia razionalistica nell’età della tecnica. Quando il principio di prestazione vorrebbe soggiogare quello di relazione.

APadova, a metà strada fra Trento e Torino, ci ritroviamo, dopo trent’anni, a ripercorrere la nostra storia, io e Renato Oliva. "C’era una volta…". Seduti nel parco, due donne rispettose ci lasciano sulla panchina, di fronte alla cappella degli Scrovegni dove Giotto ha raccontato una delle storie più drammatiche dell’arte italiana. Accetti il lettore, fra le righe nere sulla pagina bianca, questa intrusione di vicende private: dalle emozioni non dobbiamo farci travolgere, ma non dobbiamo reprimerle.

Due libri "di vita" affidati in dono, incerti, alla posta, la storia del dolore di Alex, e quella di un insegnante che si accomiata dall’aula, riallacciano due persone che si erano perse di vista. Sono ambigui i tempi moderni: l’autonomia dell’individuo può degradare in isolamento, ma può favorire, al contrario, forme diintelligenza comunitaria. La necessità di coniugare autonomia e relazione è il senso di questi libri. Fra gli individui, e fra i popoli, per ridurre le sofferenze.

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