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QT n. 9, 3 maggio 2003 Monitor

Il cinema orientale nell’era della Sars

Il Far East Film Festival di Udine: un'industria cinematografica vitale, tra b-movies, melodrammi, e profetiche anticipazioni della Sars

Anche stavolta la fantasia ha anticipato la realtà. Qualcuno ricorderà un film passato al Cineforum Trento - abbastanza sgradito, ci pare - nel 1998: "The hole" di Tsai Ming-liang, Taiwan. E’ la storia di due appartamenti resi comunicanti da un buco nel soffitto. Dovrebbe arrivare un idraulico, ma quel quartiere di Taipei è isolato, messo in quarantena a causa della diffusione di un nuovo virus che trasforma le persone in scarafaggi umani. Le autorità sono impotenti, i cittadini isolati, il contagio non si argina. I media non possono che confermare continuamente l’allerta.

Da "The hole".

La forza descrittiva di "The hole" ha ancora più impatto per il modo in cui il film è girato - una via di mezzo tra Kafka e Antonioni. Ammettiamo che si possa far fatica a capire la passione per il cinema dell’estremo oriente che consuma una folta cerchia di cinefili e di giurie festivaliere. Film come "The hole" sono un po’ come il sushi: o piace o disgusta proprio. Però, quando si abitua il palato, se il sapore forte conquista, ci si può accorgere che è presente, nel cibo come nel cinema, una fortissima dimensione estetica che non è fine a se stessa ma veicola un contenuto altrettanto forte: nel caso di questo film di Taiwan, un futuro prossimo apocalittico così simile agli scenari che stiamo vivendo. Anzi - tra futurologi che dicono che la Sars sarà peggio dell’Aids, fughe di massa di pechinesi terrorizzati dall’idea di una città-lazzaretto, arresti coatti di gente sospetta di malattia - anche questa volta la fantasia risulta troppo moderata. Se in USA i film catastrofisti sono negli ultimi anni tornati di moda, forse una spiegazione può essere questo senso di inadeguatezza di un cinema costretto a essere geloso della realtà: la fiction, con i suoi effetti speciali, non può reggere il confronto con la realtà di due torri che collassano.

Ci capita di pensare alla Sars e a "The hole" perché siamo a Udine, ospiti del Far East Film Festival, una delle principali rassegne europee sul cinema dell’estremo oriente. A causa dell’epidemia, c’è un po’ di scoramento: dopo un tira e molla con la Regione Friuli che voleva annullare l’evento, gli organizzatori hanno concesso di disdire gli inviti agli ospiti di Hong Kong, Pechino e Taiwan, e le uniche presenze autorizzate sono quella giapponesi e coreane.

Per altri versi, invece, la sensazione dall’interno del teatro di Udine sede del festival è quello di un mondo alla rovescia: se fuori si tende a stare possibilmente lontano da cinesi e assimilati, nel microcosmo dei festivalieri gli occhi a mandorla esercitano un’attrazione irresistibile - non solo sullo schermo, se si contano, nel foyer, quante occhiate calamitano le giapponesi, peraltro bravissime a giocare il loro ruolo di oggetti del desiderio.

Il Far East Film prosegue l’ambizioso progetto di far arrivare in Europa pellicole che altrimenti rimarrebbero completamente invisibili allo spettatore e al mercato occidentale: se nei festival maggiori e "generalistici" il cinema orientale è essenzialmente cinema d’autore, a Udine si dà spazio al cinema popolare e di genere: film di yakuza giapponesi, commedie demenziali coreane, thriller da Hong Kong, melodrammi cinesi. A volte ci si rende conto di stare a guardare improponibili b-movies tritatutto, ma l’impressione complessiva, positiva, è comunque quella di autori che non hanno bisogno di stare troppo alla scrivania per trovare un’idea (buona o meno) di sceneggiatura. Fra le altre cose, è anche questo segno di vivacità a dare ultimamente qualcosa in più al cinema orientale, che nei festival grossi fa man bassa di premi, a discapito delle più asfittiche cinematografie europea e americana.

In tempi normali, un festival così di settore passa inosservato. Invece, quest’anno, nell’epoca della polmonite atipica, si vede persino una troupe del TG5: non sia mai che Mentana si perda un’occasione per sobillare qualche ansia. Ecco dunque arrivare lo stigma, e magari fra un po’ la ghettizzazione, anche per gli immigrati "buoni" per definizione, i cinesi, che lavorano tanto e si fanno del tutto i fatti loro.

Se la nostra forma mentis ci porta a deprecare l’ennesima strategia del terrore mass-mediale, un secondo pensiero ci suggerisce che, se questa della creazione della paura è la trappola numero uno, la trappola numero due è quella dell’assuefazione da al-lupo-al-lupo, l’appiattimento di ogni notizia a un grado zero informativo. Se il Millennium Bag era una favoletta uguale al mille non più mille del superstizioso medioevo; se tutti questi morti di mucca pazza finora non ci sono stati; se l’antrace non viaggia più per posta: a queste condizioni, come facciamo a capire quando si tratta di un allarme vero?

Per ora, non possiamo che aggiungere questa alle tante possibilità di apocalisse che abbiamo pronte sotto mano. Forse, per lo meno, la trasformazione in scarafaggi ci sarà anche questa volta risparmiata.

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