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QT n. 5, 8 marzo 2003 Servizi

Paradosso del censore

A proposito di scandali e bestemmie: da Pasolini a Genet.

Esattamente quarant’anni fa, il 7 marzo 1963, un Tribunale della Repubblica italiana, quello di Roma, pronunciava una storica sentenza nei confronti di Pier Paolo Pasolini, imputato di aver vilipeso la religione di Stato, nell’episodio "La ricotta" del film "Rogopag". Molti dei lettori ricordano bene quei 35 minuti di altissimo cinema.

Una scena de "La ricotta" di Pier Paolo Pasolini.

Alla periferia di Roma si gira un film storico-biblico, nel quale il sottoproletario Stracci fa la parte del ladrone buono. Il regista (interpretato da Orson Welles) lo fa appendere sulla croce e mette in posa le comparse come nella "Deposizione" del Pontormo. Durante la pausa, Stracci s’ingozza freneticamente per acquietare una fame antica. Quando viene il momento, non può proferire la sua battuta ("Quando sarai nel regno dei cieli ricordami al padre tuo!"): è morto di indigestione sulla croce. "Povero Stracci! Doveva morire per accorgersi di vivere", è il commiato del regista.

Jean Genet.

Il processo nasconde un’incomprensione paradossale. Mentre
Pasolini denunciava, a modo suo, un mondo scristianizzato e profano, il giudice leggeva in quel breve ed intenso capolavoro un’irriverenza dissacrante. "Invero con il ripetuto oltraggio della musica, con la risata sguaiata del Cristo-comparsa (…), con gli insulti rivolti ai personaggi sacri della Passione del Pontormo, è in realtà il Cristo degli Altari, il Cristo della tradizione a essere dileggiato, schernito, deriso".

Il vilipendio alla religione di stato venne sanzionato con una condanna a quattro mesi. La sentenza di appello, un anno dopo, assolse il regista e la sua opera; la Cassazione, nel 1967, annullò l’assoluzione, anche se la pena era stata già cancellata da una recente amnistia.

Paragonare quella esemplare pagina di storia italiana con il recente e modesto episodio trentino è fuori misura, certamente. Non intendiamo mettere sullo stesso piano una tenace persecuzione giudiziaria e l’impennata estemporanea di qualche consigliere provinciale. L’analogia tuttavia ci tenta ed è appesa principalmente a quella parola "bestemmia" che - in senso molto diverso - ricorre nei due casi. Al testo di Genet non vengono contestate, peraltro, l’invettiva contro un Dio solo bianco, né una sostanza che l’autore stesso voleva scandalosa, ma l’ infrazione al tabu linguistico, che solo in senso formale si potrebbe chiamare davvero bestemmia. A suscitare la reazione ortodossa, sono autori come Pasolini e Genet che praticano un’arte intrecciata con la vita, esposta, tagliente. Il paradosso del censore è che le sue iniziative finiscono, meritatamente, con il valorizzare e nobilitare i loro obiettivi polemici. Chi non aveva badato all’appuntamento con "Negri", ora ne cerca il testo in libreria e s’informa su come recuperare l’occasione perduta. E’ raro che il teatro scuota, divida, urti, scandalizzi, come pure sulla carta spesso si propone di fare: se in questo caso ci è riuscito, si deve considerare di per sé un punto di forza.

Un ente pubblico come il S. Chiara (o un Comune) sa di poter pagare un costo di conflittualità politica, se si apre ad eventi di questa natura. Proprio per questo va sostenuto senza condizioni, quando ha il coraggio di farlo. Gli spettatori che hanno provato disagio hanno fatto bene ad esprimerlo, ma dovevano pur sapere che una dura dialettica tra artisti e pubblico fa parte dei presupposti teorici di molto teatro contemporaneo, non solo in casi estremi. Al cinema, ad un concerto, ad una conferenza si va orientati. Se questo non accadesse per il teatro, significherebbe non tanto che è mancata l’informazione, ma che si è diffusa la passività.