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L’ultimo nemico

Sergio Artini, L’ultimo nemico. Ancora, Milano, 2002, pp.238, 15,00.

"Reginaldo sentì avverarsi le profezie e i sogni della fine che Dio gli aveva inviato durante il viaggio come segni che non era mai stato abbandonato./ Allora domandò all’angelo che cosa ne sapesse di Dio".

Si chiude con queste parole "L’ultimo nemico" di Sergio Artini. E ancora una volta si risente lo spirito che ha animato tutte le pagine precedenti. L’autore, trentino del 1931, ha lavorato per tanti anni come medico a Tione e ultimamente a Vigolo Vattaro, sempre in Trentino. Ha al suo attivo di scrittore diverse pubblicazioni, tra le quali "I Cirenei" (1965) e "L’ora del Getsemani" (1985). Ora in pensione, in una villetta sulla collina di Trento, Artini vive le sue convinzioni umane e religiose, come le ha interiorizzate e inserite nella sua giornata. In questo libro sono l’ossatura portante, il fondo da cui scaturisce ogni pagina.

Si tratta d’una storia medioevale, del 1226, anno della morte di Francesco d’Assisi. Il chierico Reginaldo, pungolato da una crisi, decide di abbandonare l’abazia di Novacella dove è cresciuto in mezzo a molteplici, anche gioiose esperienze, per mettersi in viaggio, con lo scopo di raggiungere appunto Assisi e trovare in Francesco quanto va accanitamente cercando.

Il pellegrinaggio si rivela presto una sequela di avventure: a Egna viene ferito, curato qua e là arriva a Trento incendiata dalle truppe in ritirata di re Enrico, prosegue per Toblino, dove trova Riprando (nobile inseguito da un bando del vescovo), che decide di unirsi a lui nel viaggio e negli intenti. Sul Garda, i due vengono fatti prigionieri dai bresciani (intendono farne oggetto di scambi vantaggiosi), attraversano la pianura padana, arrivano a Pavia, chiusi nella "torre carceraria", da dove la mattina tentano la fuga: a Reginaldo riesce, l’altro invece precipita, muore. Il protagonista si nasconde in un convento, fa amicizia col giovane Luca, musico e maestro del coro. Insieme, sulla barca di Morimondo, scendono il Po fino a Ferrara.

Riescono a cavarsela in diverse situazioni difficili, a raggiungere Ravenna e di qui la Verna. Luca viene affidato al convento di Fonte Avellana, Reginaldo raggiunge Gubbio. In una taverna, difende una donna da un bruto, che giura di vendicarsi. Sale a Piano dell’Isola per incontrare Giovanni da Quintavalle. In un’imboscata Reginaldo viene ferito a morte dal quel suo crudo nemico. Con una carovana che lo cura comunque, riesce ad arrivare alla piana d’Assisi. Per una fortunata coincidenza, finalmente incontra Francesco, che va a morire alla Porziuncola.

Questa vicenda avventurosa si svolge in un mondo continuamente sconvolto da guerre, lotte tra le fazioni, tra le sette ereticali, tragicamente segnato da carestie, epidemie, miseria in ogni suo angolo.

Il romanzo si muove negli strati più bassi della popolazione, oppure nei conventi, spesso con i nobili, i cavalieri, attivi certo e per provocare quasi sempre sofferenze, ma un po’ sullo sfondo. La vita in generale è un susseguirsi ininterrotto di fame, indigenze, malattie, agguati, contrasti spietati, un seguito insomma di drammi, lutti, dolore, con pochi eventi in positivo.

Artini se l’è studiato a fondo il periodo (ha lavorato sette anni per documentarsi) e sulla pagina ce lo presenta ricostruito scrupolosamente e dall’interno, come doveva essere realmente, nel tessuto quotidiano, tanto da costringere il lettore a immergersi a partecipazione direi totale nella vicenda. Tessuto umano dunque, ma anche presenza operante della natura, animata ("Veloce il vento gemeva, era come un grido di bambino o di uccello notturno sorpreso dal terrore") in una specie di francescanesimo dal volto vivissimo e austero, privo dell’allegria a cui la tradizione ci ha abituato, d’una religiosità profonda, corsa da dubbi, ma senza cedimenti.

E’ presente però anche un altro strato, più profondo: la biografia indiretta, psicologica e culturale dell’autore, il dramma delle sue ricerche religioso-esistenziali, dei suoi interrogativi, dei suoi dubbi, della sua tensione verso una chiarezza interiore ("sono fuggito da Novacella per cercare la verità nuda e senza inganni"). E’ un complesso di meditazioni, di interrogativi, di proposte che viene fuori dai colloqui o dalle dispute tra i vari personaggi di rilievo (i sapienti di quegli anni) e si presenta come l’ordito forte e austero dell’intera narrazione.

In sostanza, la struttura del libro si può dire da romanzo, ma anche religioso-saggistica, da indagine psicologica. Offre insomma diversi strati e di conseguenza si può leggere in modi diversi: per veder come va a finire, per conoscere il Medioevo nella sua quotidianità, per meditare sui problemi capitali della vita. A parte i possibili accostamenti alla Bibbia o alla Divina commedia, direi che somiglia a una grande sinfonia, con motivi ricorrenti (le giornate e le occupazioni del chierico a Novacella, Serena la sua giovane donna di quel tempo, i compagni incontrati e perduti via via, il problema del dolore, dell’esistenza di Dio e si potrebbe continuare), con quel suo procedere musicale, severo, estroso, pieno d’invenzioni. Difatti, anche lo stile ha caratteristiche tutte particolari. Non è una lingua usuale, è in certo senso inventata per rispondere alle esigenze dell’autore e di questo mondo così lontano e al tempo stesso così attuale. E’ un italiano scorciato (ogni tanto c’è una frase senza verbo, per esempio), spesso anacolutico, nel quale si realizza una grande libertà. Si passa dal discorso diretto a quello indiretto, dalla prima alla terza persona, i verbi dal presente al passato remoto all’imperfetto, la focalizzazione dal personaggio o dalla scena alla natura circostante, il tutto in maniera naturale, fluida, che riesce ad assemblare situazioni, discorsi, personaggi in scorci tesi, efficacissimi.

Attraverso questo apparato tecnico (riscontrabile a un esame attento, perché leggendo normalmente non ci si rende neanche conto, tanto sembra spontaneo, immediato) la scrittura acquista e mantiene intensità espressiva, icasticità di rappresentazione, musicalità di ritmo, che non hanno pause da cima fondo.

Basterà citare l’episodio della fuga e del grave ferimento finale: "Sono già lontano, oltre le mura del convento, giù per gli scoscesi arbusti di spine, il sole sempre nascosto dietro le nubi, nemmeno il fiato di dire una preghiera.

E l’urlo della lama nel mio costato, due volte, il sangue non riesco più a trattenerlo, caldo mi esce sulle mani e si porta via le forze. Rischio un’altra volta di morire. Il vento leggero di Dio che mi accoglie".

Non si poteva rappresentare in maniera più sentita, più sobria, più essenziale, più drammaticamente umana, senza un filo di sbavatura.

Questa tensione, questa intensità si mantengono salde dal principio alla fine. Non siamo di fronte ad un libro da comodino o da vagone ferroviario. E’ in certo senso un poema da affrontare con impegno, che viene comunque alla fine pienamente ripagato, arricchisce dal punto di vista umano, estetico, culturale, storico. Un dono del quale ad Artini dobbiamo essere grati.

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