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QT n. 7, 6 aprile 2002 Monitor

“Variazioni…” Enigma d’autore

"Variazioni enigmatiche", di Eric-Emmanuel Schmitt, per la compagnia di Glauco Mauri. Un testo penetrante su amore e menzogna.

Buio. La luce emerge lentamente con la musica, sfumata vivida accesa; illumina la stanza ancora vuota. Scaffali, libri, un giradischi, poi due spari. La musica è dissolta e un uomo entra trafelato, chiede aiuto. Inizia così "Variazioni enigmatiche" di Schmitt, un contrasto di tinte, di frastuono e silenzio. E nel chiaroscuro non si distingue più la verità dalla menzogna.

Glauco Mauri e Roberto Sturno in "Variazioni enigmatiche".

Chi è Abel Znorko? Perché un premio Nobel solitario, rintanato su un’isola sperduta, concede un’intervista? E perché spara a chi dovrebbe intervistarlo, mancando di proposito il bersaglio? Domande cui Erik Larsen vuol trovare una risposta. Frase dopo frase, il dialogo procede, torna sui suoi passi; la verità si avvicina, si allontana, inafferrabile. L’ironia dei personaggi nasconde fra le righe un enigma che brama ma ha paura di svelarsi. "Il fascino di un mistero è il segreto che contiene, non la verità che nasconde" - così dice Znorko, ma per primo dà un appiglio allo smascheramento. Per anni ha costretto l’amata a un rapporto a distanza, epistolare: lei a Nobrovsnik, lui vicino al Polo. Si scrivono per quindici anni, poi l’irreparabile. Violando il patto, la profonda intimità che li legava, Abel pubblica le lettere spacciandole per il suo ultimo romanzo "d’invenzione". Per questo ha chiamato Erik Larsen, giornalista di terz’ordine ma soprattutto abitante di Nobrovsnik. Poco a poco i due uomini abbassano gli schermi, cedendo informazioni l’uno all’altro. Helene Metternach sta bene, non parla mai del signor Znorko, si è sposata: ora il suo cognome è Larsen!

Un colpo di scena, sì, ma in qualche modo prevedibile, come quelli successivi. Il testo ha una tale architettura, rifinita nei minimi dettagli, che prestando attenzione a ogni parola è possibile intuire il suo terribile segreto. Erik lo confessa dall’inizio: i libri di Abel li ha letti "come nessun altro". Non è un modo di dire: Helene è sua moglie, morta da pochi mesi… no, da dodici anni! E quelle lettere, da allora, è stato lui a scriverle. Lettere d’amore perché Helene continuasse a esistere nell’inchiostro, nelle parole.

Znorko è esterrefatto; credeva d’essere un "falsario", un "uomo celebre per le sue menzogne"; ma Erik l’ha battuto e pretende di sapere: pubblicando le lettere, Abel ha ucciso Helene col "gioco" che la teneva in vita. Tra schermaglie e partenze annunciate ma non mantenute da entrambi, i rivali si scambiano i ruoli sino a mutarsi in complici, amici, quasi amanti (platonici) nell’aperto finale. Znorko tenta per la terza volta di colpire Larsen con due spari e lo fa solo per dirgli "Io… io le scriverò". E mentre Erik se ne va per sempre, il premio Nobel si siede e inizia a battere una lettera.

Anche noi, come i due protagonisti, credevamo di sapere cosa è vero e cosa no, o che cos’è l’amore. Schmitt ci ha aperto gli occhi in un mondo fatto di finzione. "La menzogna è delicata, artistica, fa intuire ciò che dovrebbe essere", "la verità - invece - delude sempre" perché "si limita a dire ciò che è". Non scorderemo l’amara leggenda dei vecchi pescatori: gli uomini inventarono il proibito per vincere la noia, ma si stancarono di scalare sempre le stesse montagne, così inventarono "qualcosa di ancor più complicato del vizio, difficile, contrastato… inventarono l’impossibile… inventarono l’amore". Dopo averli conosciuti bene, si comprende che Erik e Abel non hanno ragione o torto; ci s’identifica con loro, a seconda del momento. La verità assoluta non esiste e nemmeno un modo giusto di essere al mondo. Quanto Znorko è cinico, misantropo, "l’orco di Rosvannoy", tanto Larsen è leale, romantico, ingenuo. Sono come il giorno e la notte, che al Polo durano sei mesi ciascuno, nel riposo di una natura senza stagioni. Ma l’uno è nulla senza l’altro. Amano entrambi la vita, la libertà, anche se lo dimostrano diversamente: con paura e sarcasmo o con istinto e passione. Li lega una donna, e una musica "lontana come il suo sorriso", l’adagio in do minore della "Variazione Nimrod", la nona delle 14 di Elgar.

Un grazie a Glauco Mauri (Abel) e Roberto Sturno (Erik) per aver portato in Italia un testo così penetrante; e un grazie ad Alessandro Camera per le sue scene verticali, dilatate, in cui si perde la figura umana. Helene è morta, non è mai esistita, esiste forse da sempre; e ripete: "Noi ci diciamo parole d’amore, ma chi siamo noi? A chi dici: io t’amo? A chi lo dico io? Non sappiamo chi amiamo. Non lo sapremo mai. Ti dono questa musica perché tu ci rifletta".

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