Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca
QT n. 3, 9 febbraio 2002 Servizi

La sera in cui la nomenklatura rimase nuda

Con il gruppo trentino alla manifestazione di Piazza Navona. Cronaca di una giornata forse decisiva per il centrosinistra.

"L’urlo di Moretti" ha bucato il video, si è imposto sulle prime pagine. Ma è rimbombato con tanta dirompente violenza proprio perché non è esploso nel deserto; è stata la voce estrema, l’ultima più bruciante staffilata in una giornata che ha messo con le spalle al muro una burocrazia ormai inerte.

Raccontiamola questa giornata, che abbiamo vissuto assieme ai trentini confluiti a Roma per la manifestazione "la legge è uguale per tutti".

Ci troviamo la mattina di sabato 2 alla stazione dei treni. Ci guardiamo in faccia: ci conosciamo in pochi. Spicca la mancanza degli habitués delle manifestazioni; è clamorosa l’assenza di iscritti ai Democratici di Sinistra. Ma come? Una manifestazione promossa, a livello nazionale, da un trentino del gruppo DS (Giovanni Kessler) e a sostenerla, dei diessini c’è solo un iscritto di Pinè e l’eretico Michele Guarda, dimessosi per protesta da tutte le cariche?

"Beh… è così…" - commenta serafico Kessler, per niente sorpreso.

In treno si parla delle iniziative parlamentari per contrastare l’attacco berlusconiano alla giustizia: sulle rogatorie, sulle prescrizioni, sul falso in bilancio, sul conflitto d’interessi… Tutti temi sui quali i vertici dei partiti si mostrano incostanti e tiepidi, quando non sordi: una sparata in Tv e poi "un appello al dialogo", una dichiarazione sulla "pericolosità di questa destra" e cento inviti "a non demonizzare l’avversario"; e una generale riluttanza ad appoggiare le iniziative parlamentari più invise al capo del governo.

Perché? E’ un discorso di cultura - si commenta - soprattutto nei DS; che temono sempre di apparire "antisistema", di essere delegittimati, di prestare il fianco agli attacchi degli editorialisti della stampa moderata. "Attaccando Berlusconi non si prendono voti" - è il ritornello dei grandi strateghi. Si rincorre un ipotetico elettorato di centro (che sarebbe indifferente ai temi della democrazia e della legalità). E si perde in identità, in credibilità; in ragione di esistere. A che serve, perché dovrebbe sopravvivere un’opposizione incerta fin sui temi della giustizia e della democrazia?

Per questo alcuni professori dell’Università di Firenze hanno organizzato una manifestazione, che la settimana prima ha raccolto diecimila persone. Per questo alcuni parlamentari dell’Ulivo (a partire da Nando Dalla Chiesa e dal nostro Kessler) hanno promosso la manifestazione cui siamo diretti. Accolta con fastidio dai papaveri, anche perché a parlare dal palco saranno tante voci, ma della società: giuristi, scrittori, docenti universitari, giornalisti. Dei partiti ci saranno solo gli interventi finali di Fassino e Rutelli.

"Non penso che debba essere nemmeno una manifestazione del solo Ulivo - sostiene Kessler - Sulla giustizia e sulla libertà possiamo e dobbiamo coinvolgere anche persone di destra."

Squilla il telefonino di Kessler. E’ Nando Dalla Chiesa. Vuole partecipare anche Di Pietro, che chiede di parlare dal palco, altrimenti - sembra - un centinaio di suoi scalmanati supporter sono pronti a far cagnara. Che fare? Dirgli di sì, e poi a ruota a tutti i segretari dei partitini? E rischiare l’ennesimo balletto, il rito delle mezze frasi, dei sottili distinguo tattici?

Dalla Chiesa chiede a Kessler. Che gli risponde: "Ti richiamo, ne parlo con gli altri". E sui sedili del Pendolino si apre la discussione.

Dibattiamo per un po’, arriviamo ora a una, ora a un’altra soluzione. Alla fine ci sembra di arrivare a quella giusta: se Di Pietro aderisce, meglio; e così gli altri; basta che sia chiaro che questa non è la loro manifestazione; e allora che si confrontino pure con la gente, con la piazza, su quanto hanno fatto e quanto intendono fare.

La manifestazione doveva tenersi a piazza Farnese; ma si è scoperto che, vicinissima, c’è l’abitazione di Cesare Previti, e allora si è dovuti ripiegare su Piazza Navona. "Ahi, è troppo grande" - si commenta subito.

Arriviamo in piazza alle tre e mezza, mezz’ora prima dell’inizio ufficiale, un’ora prima di quello effettivo. C’è un po’ di nervosismo fra gli organizzatori: "Se è un flop, Nando rischia di brutto. Si è molto esposto" - mi dice uno dell’entourage di Dalla Chiesa.

Nomenklatura e non. Da sinistra: Armando Cossutta (Comunisti Italiani), Massimo D’Alema (presidente Ds) e Paolo Sylos Labini (docente universitario, la cui presenza alla manifestazione era malvista dai papaveri, perchè “demonizzatore” di Berlusconi).

Poi la gente arriva: il gruppo dei Comunisti Italiani, le truppe inquadrate della Margherita, un pullman da Genova di supporter di Dalla Chiesa ("Nando, Nando, Nando!!!"), i ragazzi della sinistra giovanile, e soprattutto gente comune. Manca quello che solitamente è il nerbo della sinistra organizzata, i diessini delle sezioni: due (2) bandiere. La folla riempie metà piazza; sul palco tirano un respiro di sollievo.

Arrivano i papaveri: dovrebbero stare ai piedi del palco, e salirvi solo per parlare. Dalla Chiesa e Kessler tentano di fermarli, ma non è possibile, e così si allineano: D’Alema, Fassino, Rutelli, Cossutta, Di Pietro, Bordon, ecc. ecc.

Ma al microfono, davanti alla grande scritta "la legge è uguale per tutti" vanno a parlare altri, con cui la piazza entra subito in sintonia.

Inizia, intimidita, una signora di mezz’età, Letizia Gianformaggio, che parla a nome dei docenti di Diritto. Ed è una durissima requisitoria sulla deriva, giuridica e civile, cui ci sta portando questa maggioranza.

E’ una sensazione molto forte: questa tranquilla studiosa, che evidentemente parla solo per dovere civico, a nome dei suoi colleghi esprime preoccupazioni forti e giudizi durissimi, per difendere "principi più antichi ancora della stessa Carta costituzionale, come quello dell’uguaglianza dei cittadini". E lo fa a nome di una categoria che, ci tiene a sottolineare, "nella stragrande maggioranza non è composta di comunisti, e nemmeno di gente di sinistra".

Invece alla sinistra è venuto a parlare il prof. Francesco Pardi, docente ad Architettura a Firenze. E’ uno dei due organizzatori della manifestazione fiorentina su "Giustizia e Informazione", temi sui quali, spiega, "stiamo andando verso una situazione non degna di una società civile: per questo ci siamo detti che non si può stare a guardare, bisogna fare qualcosa."

Ma Pardi va oltre la denuncia: "E’ solo per l’insipienza della nostra parte politica, la sua irresolutezza, il suo tatticismo inconcludente, che Berlusconi è potuto arrivare alla Presidenza del Consiglio". E la folla gli tributa una prima ovazione liberatoria. Ed altre ne seguono: "Per fare un’opposizione vera, dobbiamo aspettare che le sentenze dei magistrati siano emesse in nome del Presidente del Consiglio invece che del popolo italiano? (...) La nostra disgrazia è iniziata con la Bicamerale… in cinque lunghi anni non è stato fatto nulla sul conflitto d’interessi (...) Alle forze dell’opposizione in Parlamento diciamo: su giustizia e conflitto d’interessi, nessun compromesso!"

Più la folla applaude e urla, più i papaveri sul palco si rannicchiano su se stessi. D’Alema, accigliato, ha il baffo teso che a stento nasconde una smorfia, le mani che, uniche, rifiutano di unirsi al trionfale applauso finale. Cupo stringe i denti e soffre in silenzio: fa anche un po’ di tenerezza.

Gli interventi si susseguono, argomentati e appassionati. Sembra il meglio della società, che da molteplici punti di vista affronta lo stesso problema. Giovanni Bachelet, ordinario di Fisica alla Sapienza, occhi da miope, la voce prima incerta, poi sempre più salda, accusatrice, ripercorre il programma dell’Ulivo del ’96 sulla giustizia, sull’ineleggibilità di chi detiene concessioni pubbliche, i provvedimenti che avrebbero impedito posizioni di dominio nelle Tv: "Perché - chiede - in cinque anni di governo non abbiamo fatto nulla di tutto questo? (...) E ora dobbiamo deciderci: o torniamo a quel programma, o ne impostiamo uno nuovo. E in ogni caso voglio sapere: qual è la nostra linea sulla giustizia?"

La scrittrice Lidia Ravera (ricordate "Porci con le ali"?) parla del modello culturale che si sta diffondendo, "quello del signor Furbetti, che si appoggia ai potenti e riconosce al più potente di tutti il diritto di cambiare le leggi e fare quello che vuole."

Il giornalista - di destra - Massimo Fini rivendica il merito a tanti uomini della sua parte - molteplici magistrati, Montanelli, Di Pietro, Travaglio - di avere in questi anni coerentemente combattuto il tentativo berlusconiano di sovvertire i principi cardine della democrazia liberale: "L’affossamento del processo Sme - arriva a dire - è equivalente al delitto Matteotti, con il capo del governo che si proclama al di sopra e al di fuori delle leggi". Riconosce però che in questa battaglia l’appoggio popolare viene dalla sinistra: "Grazie di esistere - dice alla folla - anzi, grazie di resistere".

Dai politici ci sono i brevi saluti di Cossutta (che se la cava alzando la voce nel finale, a invocare a squarciagola "l’unità della sinistra!!!"). E l’intervento di Di Pietro, che riafferma un punto-base già più volte ribadito: "Sul conflitto d’interessi non illudiamoci, non ci saranno spazi per mediazioni onorevoli: noi dobbiamo votare contro"; e finisce lanciando un’inopinata ciambella di salvataggio alla nomenklatura: "Sugli errori del passato tiriamoci una riga: cosa fatta, capo ha".

Arriva il momento finale, con la coppia dei leader ulivisti, Fassino e Rutelli. Che conclusioni tireranno? Ci pensa subito Fassino a smorzare ogni aspettativa: un discorso piatto, un compitino insulso che poteva essere recitato un mese o due prima e in qualsiasi altro contesto. Autocritica: zero. Collegamenti con i tanti appassionati interventi precedenti: nessuno. Rapporto con il pubblico: nullo.

Dalla Chiesa e Kessler spiegano a Fassino il senso della manifestazione. Il segretario diessino sembra prendere appunti diligentemente. In realtà - per sua sfortuna - parlerà inserendo il pilota automatico.

Questo è il personale politico che si è asserragliato nelle sedi decisionali della sinistra. Un personale che, nella primavera scorsa, nel momento decisivo della battaglia, è scappato, come e peggio del re fuggiasco Vittorio Emanuele III: il segretario Veltroni rifugiatosi al Comune di Roma, D’Alema a Gallipoli, ognuno alla ricerca del seggio sicuro per sé, poco curandosi della battaglia generale, delle prospettive del partito, di quelle della nazione. Gli ideali sembrano non esistere; esistono le poltrone. E oggi il problema su cui si appassionano e si dividono non è la guerra, o le leggi sui licenziamenti, o i pericoli per la democrazia; è se una seggiola in Europa debba andare a Dini o D’Alema.

Mi trovo sotto il palco: il volume degli altoparlanti prima non lo sentivo neanche, ora mi diventa insopportabile. Vado sul retro, e incontro l’unico trentino diessino doc: "Mi stanno cascando le braccia" gli dico; "Cosa vuoi - risponde - se sono qui, è perché neanch’io sono d’accordo con il mio partito".

Fassino, dopo aver addormentato tutti, finalmente conclude. Applausi di circostanza. E’ la volta di Rutelli; che comincia molto bene: "Qui inizia una nuova stagione per l’Ulivo. Da ora in poi scenderemo nelle piazze, per avere un rapporto con gli elettori, per far capire al governo che c’è un’opposizione che si batte".

Poi sbaglia: "Se non l’abbiamo fatto finora è perché non avevamo i soldi", e si becca dalla folla un primo, cupo, ringhioso avvertimento; che diventa un urlo che lo sovrasta, quando sul conflitto d’interessi spiega che "con la maggioranza cercheremo il dialogo…"

Ma come? Non avevano detto tutti che Berlusconi sui suoi interessi non molla di un centimetro, che è un pericolo per la democrazia, che siamo il paese delle banane…? "Lasciatemi spiegare…" - si affanna Rutelli, che ottenuto un minimo di calma assicura lotta durissima e opposizione intransigente.

Poi finisce, senza infamia e senza lode.

Tra la folla Nanni Moretti non ce la fa più. E’ dall’intervento di Fassino che smoccola mezze parole di rabbia. Preannunciato da un senatore della Margherita che avvisa Dalla Chiesa, si avvicina al palco ma non dalla parte delle scalette: lo scala dalla parte frontale. E’ sempre uno splendido quarantenne, l’artista che tutti amiamo, "Dicci qualcosa di sinistra!" - gli gridano in tanti.

" Questa sera ho sperato, sentendo i tanti intervenuti, che stesse per nascere una nuova stagione per il centro-sinistra. Ma dopo gli ultimi due interventi, ho capito che anche la giornata di oggi E’ INUTILE!!!!" - grida. E si lancia nella nota invettiva contro "la burocràcsia che è alle mie spalle. Con loro dovranno passare tre, quattro generazioni, prima di poter tornare a vincere!".

Mentre parla, Fassino si dilegua. D’Alema se ne va alla fine del discorso. Rutelli, il volto pietrificato, stoicamente non si muove.

Dura non più di due minuti il discorso di Moretti, che supera un paio di fischi di dissenso. E alla fine dalla piazza si alza un urlo di liberazione.

Chiude Dalla Chiesa, che ha presentato magistralmente i vari oratori, e anche adesso è all’altezza della situazione: "Se Dalla Chiesa non ricuce, lo strappo è grave" - sussurra Rutelli a Kessler.

Dalla Chiesa riprende i temi della serata, ne fa una rapida sintesi, ringrazia tutti, compresi "gli esponenti dei partiti, se non altro perché sono venuti qui a esporci il loro punto di vista". Alla folla va bene così, qualche fischio ma tanti applausi. Alla nomenklatura non basta: quelli che non se ne sono già andati, sfollano mesti. Rutelli deve affrontare un mare di microfoni, taccuini, telecamere; è una tortura, si vede che vorrebbe rimanere solo ad assorbire la botta, ma proprio non può. Cerca di allontanarsi, sempre circondato dal nugolo di incolpevoli torturatori: "Moretti è un uomo di cultura, ed è legittimo che parli di politica. Non è però detto che dica cose giuste…"

Rimangono in tanti, a discutere. Si viene a creare una curiosa disposizione concentrica. Quelli della zona palco (l’entourage dei politici) discutono con la gente dietro le transenne: gli uni sono per la tesi "così ci facciamo del male da soli", per gli altri "finalmente si dice come stanno le cose"; e più ci si allontana dal centro, più cresce e diventa egemone la seconda tesi. I trentini sono compatti per quest’ultima: "un senso di liberazione", unito all’orgoglio di aver partecipato a un momento che forse sarà di svolta storica.

E adesso? - ci chiediamo mentre sfolliamo. La struttura burocratica potrà dare colpi di coda, ma è delegittimata, e dai suoi stessi elettori. "Ora, per noi che abbiamo organizzato tutto questo, crescono le responsabilità" - commenta Kessler.