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La legge del più forte

La situazione nei Balcani nella testimonianza di un volontario.

Sono stato in Macedonia in diversi periodi prima che scoppiasse quest’ultimo conflitto e devo dire che molti segnali facevano presagire quello che è successo". Alberto Capannini, volontario dell’Operazione Colomba di Rimini, ha vissuto in Kosovo prima della guerra del 1999 ed è stato profugo in Macedonia insieme alla popolazione albanese. Gli chiediamo di spiegarci le ragioni dell’improvvisa esplosione che ha minacciato di travolgere l’ultima repubblica multietnica della ex Jugoslavia.

"La Macedonia - ci dice - è uno stato multietnico, ma non c’è una buona convivenza tra l’etnia slava e quella albanese, che costituisce il 40% della popolazione. Gli albanesi di Macedonia non hanno un riconoscimento pieno dei loro diritti, lamentano una discriminazione politica e linguistica da parte dei macedoni e subiscono la tentazione di rivendicare con le armi le loro ragioni. Tanto più che l’Uck, armata dagli Stati Uniti per equilibrare il conflitto tra albanesi e serbi in Kosovo, è diventata una vera e propria mafia, con una struttura militare capace di fare da supporto agli albanesi di Macedonia. Evidentemente l’operazione di disarmo effettuata dalla Nato non è stata efficace".

Quali motivi interni allo stato macedone spiegano la repentina fiammata della guerriglia intorno alla città di Tetovo?

"Nella Jugoslavia di Tito c’era una grande attenzione a distribuire le cariche e le responsabilità politiche a seconda delle etnie. In Macedonia, invece, per quello che abbiamo potuto constatare noi, c’è sempre stata una grande paura e una demonizzazione degli albanesi, che non si sono sentiti riconosciuti come popolo. L’esempio del Kosovo ha dimostrato loro che i diritti non ti vengono riconosciuti perché li chiedi, ma solo nel momento in cui fai la guerra e hai gli strumenti militari per confrontarti col tuo avversario. Gli albanesi di Macedonia, perciò, hanno cercato di fare come i loro vicini, anche se si tratta di gruppi e non della maggioranza della popolazione".

Tu sei stato sfollato in Macedonia al tempo della repressione serba sul Kosovo. Cosa hai potuto osservare della situazione interna macedone in quel frangente?

"Noi siamo fuggiti insieme a un milione e mezzo di kosovari che hanno varcato in pochi giorni le frontiere dell’Albania e della Macedonia. La prima impressione, molto forte, è che i profughi avessero più paura delle guardie macedoni che dei serbi; infatti le guardie hanno approfittato della situazione di debolezza degli albanesi per chiedere tangenti a chi voleva entrare e hanno trattato malissimo le persone. Questa povera gente che aveva perso tutto, che non sapeva cosa le sarebbe successo, ha incontrato una diffidenza assoluta da parte dei macedoni".

Come mai?

"La paura del governo macedone era quella di importare una guerra, introducendo, in una situazione già molto instabile, un elemento etnico albanese troppo numeroso che avrebbe potuto farla precipitare. La zona di Tetovo, a maggioranza albanese, dava proprio l’impressione della polveriera. La gente diceva: quello che è successo in Kosovo succederà anche qua, perché non si può continuare a vivere così. La presenza internazionale, che avrebbe dovuto salvaguardare l’equilibrio, evidentemente non è bastata, anche perché sono arrivate tante armi all’Uck".

Hai detto che in Macedonia gli albanesi non sono riconosciuti come popolo. Potresti spiegarti meglio?

"Gli albanesi macedoni ci hanno raccontato che per loro è difficile trovare posti di lavoro, che è impossibile utilizzare la propria lingua o manifestare la propria identità. Devono dire di essere macedoni, non albanesi ".

Come ha accolto i profughi la gente di Tetovo?

"Gli albanesi di Tetovo hanno aperto ai profughi le loro case, senza problemi. Non bisogna dimenticare che molti kosovari possiedono case anche in Macedonia. Nei campi profughi invece la situazione era diversa; benché fossero gestiti abbastanza bene dalla comunità internazionale, i rapporti tra profughi e macedoni residenti erano pessimi, a causa della paura che queste persone non sarebbero rientrate nella loro terra, ma che avrebbero esportato in Macedonia i problemi del Kosovo".

C’è da parte dei responsabili della Nato la volontà reale di disarmare l’Uck e di pacificare il Kosovo, oppure l’Uck è sfuggita di mano ed è diventata incontrollabile?

"Credo non si possa dubitare della volontà della Nato di disarmare l’Uck. I vertici militari, ad esempio, hanno fin troppo chiaro che l’Uck non può portare a nessuna convivenza pacifica con i serbi. Ma il problema non è più solo disarmarla. Oggi l’Uck, addestrata, potenziata e foraggiata dagli americani, è diventata una mafia con un potere enorme: decide chi entra a lavorare con le organizzazioni non governative, chi ha diritto alla distribuzione degli aiuti, con una pesante azione mafiosa. Come fa un esercito straniero che non conosce bene la lingua a combattere un fenomeno del genere? Se, per esempio, viene affisso un bando per cercare 30 interpreti e questi vengono reclutati dall’Uck, è chiaro che in seguito dovranno restituire il favore. È una situazione mafiosa che non si combatte con gli strumenti militari, soprattutto dopo che si è armata e legittimata la mafia".

Non c’è dunque speranza?

"Il fatto che l’Uck abbia perso le elezioni è un fatto positivo. Il Kosovo però è tuttora, all’interno dell’Europa, un grande mercato nero che offre proventi notevolissimi".

Il tentativo della Nato di ricostituire in Kosovo una società civile, insomma, sta fallendo...

"C’è un handicap di partenza: la guerra ha dimostrato che le condizioni le detta il più forte, il che non è una buona base per ricostruire uno stato di diritto. Manca poi un programma concreto: come è possibile reinserire i serbi in una situazione così deteriorata? La politica della Nato, che prima ha armato l’Uck per equilibrare il conflitto, poi ha ritirato tutta la presenza internazionale dando alcuni mesi di tempo ai serbi per fare piazza pulita, e successivamente ha cominciato una guerra, ha reso la convivenza interetnica impossibile".

Paradossalmente la guerra della Nato avrebbe favorito l’idea dello stato etnico...

"Sì. In Kosovo sarebbe stato necessario un intervento preventivo che era fattibilissimo; invece si è lasciata aggravare la situazione per poter concludere che non c’era alternativa alla guerra. Prima del ritiro degli osservatori occidentali, in Kosovo c’era tensione, ma non c’erano stati stragi. Oggi, dopo la guerra, almeno una generazione è persa per la convivenza. Come si fa a convivere con chi ti ha ammazzato i familiari? È un eroismo che non si può chiedere".

Quali sono le urgenze più serie in Kosovo attualmente?

"La ricostruzione sta procedendo abbastanza. Il problema più spinoso è come togliere politicamente il potere all’Uck, che può sempre vantarsi di fronte al suo popolo di aver lottato per l’indipendenza. Un’altra urgenza è fermare la ritorsione dell’Uck sui serbi, che sono terrorizzati e non possono svolgere una vita normale, mandare i figli a scuola, andare al mercato. Si tratta di ricostruire la situazione plurietnica precedente alla guerra".

Alcuni politologi sostengono che la Nato ha fatto la guerra nei Balcani, ma non ha ancora una politica sui Balcani. Quale politica sarebbe necessaria, a tuo parere, per pacificare la regione?

"Anzitutto sarebbe utile riflettere sugli errori fatti. Non si può mantenere in sella uno come Milosevic e poi lamentarsi che ci siano guerre nei Balcani. I mille miliardi della Telecom hanno permesso al dittatore di Belgrado di pagare le pensioni agli statali e di finanziare la repressione in Kosovo. Bisogna assumersi le proprie responsabilità. In secondo luogo si dovrebbe smettere di considerare la soluzione politica come quella debole, per adottare di fronte ai conflitti sempre quella militare. Manca, insomma, una politica estera europea. L’abbiamo fatto presente anche a Prodi qualche tempo fa proponendogli un corpo internazionale di pace europeo, ma ci ha risposto che al momento gli sforzi dell’Unione Europea erano rivolti, in politica estera, alla creazione di una difesa comune. Eppure anche i militari oggi si accorgono che il loro intervento non è risolutivo sul piano politico.

La politica estera deve adottare strumenti diversi. Se l’unico strumento che ho in mano è un martello, sarò costretto a trattare tutti come un chiodo. Inoltre bisognerà cominciare a subordinare la collaborazione economica al rispetto dei diritti umani. Negli accordi queste clausole ci sono, ma nella realtà non vengono rispettate. Ciò significa che gli affari non hanno nessuna dimensione etica e che si dà libero corso alle guerre".

Quali sarebbero gli obiettivi prioritari per una pacificazione dei Balcani?

"Molti hanno proposto una specie di conferenza di pace per tutta l’area balcanica, proprio perché lo stato tradizionale non può dare risposte a una situazione multietnica. Bisognerebbe trovare forme di autonomia o di federalismo che permettano alle diverse etnie di avere i propri diritti, da un lato, e di sentirsi parte di una realtà più vasta, dall’altro.

Spesso le culture, pur diverse, sono complementari. Inoltre la cooperazione e la ricostruzione dovrebbero essere accompagnate da un intervento educativo dal basso che aiuti le persone a sconfiggere la mentalità mafiosa e a capire che i diritti non sono una graziosa concessione della mafia. Se manca il collegamento tra chi è al potere e la popolazione, tutti questi spazi vengono occupati dalla malavita".