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Stakanovisti in camice bianco

Sanità, regno della deregulation. Da L’altrapagina, mensile di Città di Castello (Perugia).

Soldi, soldi, una marea di soldi, senza fine. La sanità ha sete di soldi come il terreno arido dell’acqua. Le Usl sono indebitate fino al collo, chi più chi meno. La palma d’oro spetta all’Emilia Romagna, seguita a ruota dalla Toscana e poi da tutte le altre. Ma perché la spirale dei debiti si è allungata sempre di più se la riforma avrebbe dovuto razionalizzare la spesa, contenendo gli sprechi? Dove sta il marcio, se marcio dev’esserci?

Un anello debole è costituito dalla logica su cui poggia il sistema: se sei produttivo, ottieni soldi. Il finanziamento degli ospedali si basa sulle prestazioni effettuate e più se ne fanno, maggiori sono le entrate. Per assurdo, se una ASL è così efficiente da ridurre la morbilità, ossia la domanda di cura, di fatto è penalizzata. In altre parole, se la gente sta bene, la sanità sta male e viceversa. E’ necessario quindi inventare ciò che non c’è. La struttura prolifera su se stessa, riproduce la malattia, invece che curarla.

Nel suo libro "Nemesi medica" Ivan lllich aveva spiegato il fenomeno alla perfezione più di venti anni fa. E la forza condizionante del sistema è così penetrante che la gente si è adattata inconsapevolmente. A un paziente che spende 200.000 lire per una visita non si può dire che sta bene, che per vincere un mal di pancia bisogna aspettare che passi o che è sufficiente una tisana. Per il medico sarebbe un cliente perso e il pubblico annuncio della sua incompetenza. Così le prescrizioni aumentano e gli esami pure. Si va dal farmacista come si va al mercato, con la borsa; di medicine si fa incetta e per seguire alcune terapie a base di pillole occorrerebbe assumere un contabile.

Questa logica ha fatto schizzare letteralmente in alto il costo complessivo del sistema sanitario, assicurando splendidi guadagni alle ditte farmaceutiche, i cui titoli volano in borsa.

In questo gioco al rialzo i medici hanno dato un contributo notevole, nonostante la cura decongestionante Bindi, che avrebbe dovuto inibire l’ansia da plus lavoro e da plus guadagno.

Il condizionale è necessario, poiché, in pratica, la musica del tempo definito più lavoro privatizzato ha continuato come prima, più di prima, anche dopo l’introduzione dell’intra moenia. Che i medici avessero qualche ruvido risentimento nei confronti della ex-ministra ex-democristiana era più che evidente. Basta aprire il sito web denominato "Libertà Medica", per capire i furori della categoria alla semplice supposizione che qualcuno volesse porre un limite alla libera professione. Sulla pagina introduttiva compare un occhio scrutatore - Dio ti vede -, con la scritta ammonitrice: "La Bindi ti controllerà per sempre!! Attento!!". E il titolo aggiunge: "La nostra guerra in trincea alla legge 229", corredata dall’immagine di un soldato armato che cammina, animoso, verso il fronte.

Ma che la proposta Bindi non fosse poi così repressiva, lo dimostra l’alta percentuale di medici che ha optato per l’esercizio della professione privata all’interno della struttura ospedaliera, oltre il 90%. Se fosse stata così penalizzante, le adesioni non sarebbero state tanto alte.

Ma allora che cosa è successo? Perché questa professione di amore per il pubblico quando tutti dicono "privato è bello" e - aggiungiamo - lucroso?

L’ex ministra, per cercare di limitare l’alzata di scudi dei medici, si era preoccupata di assicurare aumenti di stipendio a coloro che avrebbero scelto di svolgere la loro attività all’interno degli ospedali. E così è stato. La categoria si è lasciata convincere, ha intascato gli incentivi stipendiali, ha iniziato a svolgere la propria attività privata entro le mura ospedaliere, con ambulatori, strutture, macchine e servizi pagati dal pubblico, ma non ha mai smesso di esercitare la sua attività fuori delle mura, in altri ambulatori privati, e, in più, ha ottenuto anche il siluramento della scomoda e poco amata "persecutrice" al Governo. Una vittoria su tutto il fronte.

Sull’attività privata svolta dai medici oltre il normale orario di lavoro, l’Asl trattiene una percentuale (il 15%) degli incassi; la restante parte viene accreditata nello stipendio mensile e, quindi, sottoposta alla normale tassazione. Tuttavia, agli stessi medici è consentito di poter svolgere un’attività intra moenia in altri loro ambulatori. Sempre di servizio pubblico si tratta, ma esso è esercitato fuori dell’ospedale, in strutture private; una specie di intra moenia allargato.

Il meccanismo funziona così. Dentro l’ospedale non ci sono ambulatori disponibili per tutti. Allora l’azienda autorizza i medici ad esercitare l’attività fuori del recinto ospedaliero, fornendoli di un blocchetto da cui i tecnici, legati da un rapporto fiduciario con la struttura, dovrebbero staccare una ricevuta per ogni visita effettuata nel loro ambulatorio casalingo o comunque privato, a pagamento. Alla fine del mese consegnano il ricavato risultante dalle ricevute su cui è conteggiata la normale trattenuta, come se l’attività fosse stata eseguita dentro l’ospedale. Se ad ogni visita corrisponda una ricevuta è impossibile da accertare, perché nessuno controlla.

Quando l’attività del medico si svolgeva parte dentro e parte fuori dell’ospedale, il paziente poteva scegliere liberamente da chi farsi curare. Ora che, teoricamente, si sta dentro o fuori, il paziente si lega indissolubilmente al medico curante ospedaliero, con il quale instaura un rapporto che inizia nel pubblico e si prolunga nel privato: "Venga nel mio ambulatorio".

Il paziente, così, diventa il mio paziente, ossia si trasforma in cliente, con un diritto di esclusiva inviolabile per gli altri medici. L’invasione di campo è fonte di aspre contese. Ovviamente ci sono limitazioni evidenti. Un medico trasfusionista non può fare attività privata. Non tutti i medici possono, a causa della particolare specializzazione, sfruttare tale opportunità.

Nonostante ciò, il fenomeno è più che diffuso e chi non si adegua è un pirla. Se in una fabbrica si lavorasse più di 8 ore al giorno, considerando anche i turni notturni, si parlerebbe di sfruttamento. Eppure ci sono medici che, oltre il normale orario di lavoro, si sottopongono a orari impossibili, turni forzati, saltando da un ambulatorio all’altro, da un paese, frazione o quartiere, in uno o più ambulatori, sabato e domenica compresi, moderni stakanovisti in camice bianco.

Le tariffe praticate non sono regolate da alcun tariffario se non ad un livello minimo sotto il quale non è consentito scendere, per non sminuire la categoria, ma gli aumenti sono liberi. Tutto dipende dalla fiducia che il cliente ha nel suo medico. Ognuno fa ciò che vuole. Così gli stipendi raddoppiano e triplicano.

A nessuna categoria di lavoratori pubblici è consentita una deregulation così accentuata. E al cittadino non resta che pagare: 100.000 senza ricevuta, 150.000 se vuole la ricevuta, quando va bene; altrimenti, di ricevuta non si parla nemmeno.

E ancora siamo convinti che il nostro è un sistema sanitario pubblico, che nell’immaginario collettivo significa tutto gratuito!

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