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QT n. 19, 28 ottobre 2000 Monitor

La lingua del Santo

"La lingua del Santo” è l’ultimo lavoro di Mazzacurati, bravo autore italiano, i cui film passano spesso inosservati, pur essendo di spessore e importante riflessione sul presente, accomunati dalla poetica dei poveri e umili, degli emarginati, quelli che non sono riusciti a trovare un posto nella società del benessere, che ha invece arricchito i più furbi e accorti.

Anche in questo film si racconta di due poveracci rimasti ai margini, simbolo di tanti altri che non ce l’hanno fatta; ma è un nuovo Mazzacurati, divertente e rassicurante con la sua pacatezza, a percorrere la via della commedia, che, come lui dice, “per gli italiani è nel sangue, nel Dna”, con un tono gentile e malinconico ma anche tinta di humor speciale, delicato, che rende “vere” le balorde vicissitudini narrate, dove sacro e profano si mescolano con ironia e riservatezza.

Prendendo spunto da un fatto di cronaca (il furto del mento di Sant’Antonio, a Padova, sua città natale), il regista narra il furto della lingua del Santo, preziosa reliquia custodita in oro e castoni, da parte di Willi e Antonio, due quarantenni falliti in questa loro città arricchitasi troppo in fretta che “fattura quanto il Portogallo”: il primo, un ex-rappresentante, garbato e dignitoso, un po’ sognatore, separato dalla moglie ma incapace di vivere senza di lei, che era il senso della sua vita; il secondo, giocatore di rugby ormai capace solo di calci piazzati, ma molto svelto e realistico nel muoversi nel mondo della piccola truffa, entrambi scivolati sul fondo senza riuscire a riemergere. Per campare, essi si sono messi in coppia e rubano, ladri maldestri, piccole cose e scarni bottini, sempre più impauriti, depressi e miseri. Finché il caso li fa imbattere nella reliquia, occasione per riscattarsi finalmente con un colpo a fior di miliardi. Nel pandemonio che si scatena nella gaudente e devota Padova, i due escogitano vie d’uscita, superano intralci e peripezie e concludono con un finale a sorpresa , ma logico approdo delle due distinte personalità.

I fatti sono semplici, e anche risaputi; quello che conta e dà spessore e sapore al film è la loro messa in scena: sensibilità e sicurezza della mano registica fanno palpabile l’atmosfera dell’opulenta città, animata da una quasi pagana devozione al suo patrono, abile e assidua nel gestire il tessuto della sua ricchezza, nel destreggiarsi tra imprenditori, professionisti, media, zingari, lavoratori africani.

L’ambiente umano e l’ambiente naturale di questo Nordest in piena attività sono sintetizzati in alcune sequenze essenziali ed espressive, come il campo degli zingari, i neri raccoglitori di funghi coltivati, il chirurgo di successo con cui ora vive la moglie di Willi, concentrato di ogni volgarità e cinismo, il bar dei miseri, il dispiego di media e tecnologie nell’inseguimento dei ladri; mentre i colli boscosi, la laguna con i canneti, il gioco di luci iridate, l’arcano sciabordio di onde e maree capace di dare la quiete, sono lo sfondo lirico, a volte quasi surreale, per il bizzarro svolgersi della vicenda e dei caratteri. Del resto una vena malinconico-poetica ed ideale percorre tutto il film, comunicata allo spettatore anche tramite la voce narrante di Willi, che riflette sulla vita e sulle situazioni contingenti, esprime i propri sentimenti e ritrova via via se stesso.

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