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Guerra “a bassa intensità”

Sporadiche azioni di repressione violenta su uno sfondo di continue minacce e intimidazioni: così il governo messicano cerca di indurre gli indios alla rassegnazione.

Quasi tre ore sul cassone di un camion, polvere nelle narici, nei polmoni, tra i capelli, sui vestiti. Poi, una volta scesi, un’ora di buon passo verso la montagna. Poche case costruite con tavole e pali di legno mal combinati, occhi che ci spiano, curiosi o timorosi. Il "compaqero" che ci presenta alla comunità di S. P. dice che veniamo dall’Italia - dall’altra parte del mondo! - e che abbiamo viaggiato di notte e percorso sentieri fra i monti per evitare i numerosissimi posti di blocco dell’esercito messicano, adibito illegalmente a svolgere anche le funzioni della polizia migratoria (quella incaricata delle questioni inerenti la presenza di stranieri).

Un "pueblo" sperduto, quasi nessuno sa leggere, la vita di chi ci abita è la vita della natura. All’apparenza è tutto tranquillo: che ne sanno della guerriglia qui? Non arrivano mai i giornali e la gente è esclusa a tutti gli effetti dal dibattito politico, sociale, culturale, economico del paese e del mondo.

L’esercito è arrivato fin qui nel febbraio 1995, quando le gerarchie militari avevano deciso di sferrare la controffensiva al movimento rivoluzionario indigeno in lotta per il riconoscimento dei diritti elementari (l’EZLN, Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale). Allora tutti gli abitanti che appoggiano il movimento si dovettero nascondere sulle montagne, nelle caverne, in ripari di fortuna. Ci rimasero per più di un mese. Da quel momento, altre due o tre volte qualche cellula di divise verdi si è avvicinata al villaggio senza mai entrarvi direttamente. Ma dov’è la guerra che ci avevano preannunciato, quella "vera", quasi scenografica alla quale l’informazione ci ha abituati?

Passa un elicottero color verde scuro nel cielo sopra di noi, vola basso. Ci nascondiamo; gli stranieri qui non hanno nulla da fare, possiamo venir segnalati, addirittura fotografati e poi sbattuti fuori dal Messico con l’accusa di esserci coinvolti in attività politiche. I padri richiamano l’attenzione dei figli con un bisbiglio complice e puntando un indice al cielo spiegano: "Quello è il nostro nemico". La ragione di vita dei padri è la lotta per assicurare un futuro ai figli. I bimbi ascoltano ed imparano, perché il senso della loro vita sarà continuare la lotta dei padri, fino all’ultimo.

Giochiamo con loro, chiediamo i nomi per rompere il ghiaccio. Solo più tardi scopriamo che i vari Juan, Pedro, Manuel se li inventano sul momento, che hanno imparato dai genitori a farsi conoscere con un nome qualsiasi. Volti senza nome che ci attorniano, menzogne per difendersi, negazione dell’identità. E’ un popolo che combatte. Sotto i passamontagna neri dei guerriglieri ognuno è diverso; per occhi estranei, un solo volto, una sola idea, un’unica passione: giustizia.

Nella piccolissima clinica di un villaggio vicino un indio ci mostra i medicamenti. Molti farmaci servono a curare la gastrite, malattia pressoché sconosciuta fino a sei anni fa. Male psicosomatico, tensione che rimane indigesta, paure sottili ed interminabili, logoranti come la guerra di trincea vissuta dai nostri nonni.

Si chiama "guerra di bassa intensità" ed i suoi ingredienti sono il terrore ed il tempo. Inaugurata dalla "politica forte" degli Stati Uniti al tempo di Ronald Reagan e sperimentata con grande successo nella restaurazione delle dittature del Centro e Sud America (si ricordi per esempio la mala ventura del Nicaragua, insanguinato dalle azioni dei "contras" somozisti), anche in Chiapas sta dando i suoi frutti funesti. Continui spostamenti di truppe sulle strade sconnesse delle zone più ritirate; azioni sporadiche e cruente di paramilitari (gruppi indigeni armati in via non ufficiale dal governo che seminano il terrore per rompere il baluardo della resistenza indigena e contadina); infine manovre politiche di una banalità sconcertante che dimostrano appieno la corruzione delle istituzioni.

Un esempio? Lo scorso 15 marzo fu reso pubblico un comunicato del vescovo Raul Vera Lopez, di recente allontanato dal Chiapas per la sua lotta a favore dei diritti indigeni, nel quale si denuncia la presenza di più di quindici gruppi paramilitari operanti in questo stato. La notizia viene prontamente smentita dalle voci ufficiali; ed il giornalista, mellifluo: "Pericoli in Chiapas? No certo... non vorremmo spaventare i turisti... qui tutto è pace ed armonia...".

Altri esempi? Spulciamo per sommi capi la cronaca degli anni scorsi: l’attacco capillare dell’esercito messicano alle comunità indigene in resistenza nella Selva Chiapaneca (febbraio 1995); il tradimento, da parte del governo, degli accordi di San Andrés, in cui al tavolo delle trattative esponenti del potere ed EZLN avevano concertato un programma di smilitarizzazione della regione e di cambiamenti costituzionali in una prospettiva più equa e democratica; il massacro di Acteal, dove nel dicembre 1997 un gruppo di paramilitari mai ben identificato (pochi mesi fa sono stati incarcerati alcuni esecutori; i mandanti rimangono ignoti: sono troppo in alto...) massacrò a colpi di baionetta 45 persone riunite in preghiera, donne incinte e bambini inclusi; lo smantellamento, ad opera del governo priista (il PRI è il partito conservatore al potere) della CONAI, organo politico di mediazione con l’EZLN (giugno 1998) e l’immobilizzazione dell’alta commissione per la pacificazione, la COCOPA; gli attentati subiti dai due vescovi rivoluzionari Samuel Ruiz Garcia e Raul Vera Lopez.

Piccoli e grandi segni: non resta che dormire con un occhio sempre aperto, sul chi va là perpetuo. E vince chi dimostra più costanza, nonostante la sproporzione delle forze in gioco.

Il peso di questa guerra non è solo il bilancio dei corpi perduti e degli affetti spezzati. E’ anche il peso della menzogna, della clandestinità coatta per chi non vuole rinunciare al sogno libertario della giustizia: "Inocencia de niqo, espiritu guerrero, corazon de poeta" - inneggia, forse un po’ pateticamente, una scritta su un muro di San Cristobal de las Casas.

E’ il peso di chi tiene il proprio nome nascosto dentro di sé, di chi da anni non torna a casa per non esporre parenti ed amici al pericolo di rappresaglie e, braccato come un animale, lotta per dei diritti cui sa attribuire il valore dell’abnegazione, della sofferenza, della condivisione del cammino di un popolo.

La realtà è amara. L’ideale rivoluzionario zapatista, benché sotto parecchi aspetti diverso dalle rivoluzioni socialiste e comuniste dell’America Latina di trent’anni fa, sta di fatto subendo la stessa sorte e viene combattuto con gli stessi strumenti dalle forze del neoliberismo. L’accerchiamento della politica rivoluzionaria (perché si tratta soprattutto di un movimento politico di opinione), incalzata su tutti i fronti dalla guerra di bassa intensità, sta conducendo alla graduale disgregazione del consenso alla rivoluzione nelle fasce dei primi beneficiari della rivoluzione stessa - i contadini, gli indigeni e con loro tutti i poveri e gli oppressi del paese, quanti il governo del presidente Ernesto Zedillo vuole ridurre al silenzio ed alla subordinazione. Il clima di terrore instauratosi a seguito di tutti questi meccanismi ha generato all’interno delle stesse comunità indigene gravi contese ed attriti alimentati con subdole manovre da fiduciari del governo priista. E’ seguito lo spostamento di masse di "desplazados" (profughi): gente che abbandona le proprie case, i terreni coltivati che garantiscono il sostentamento, parenti ed amici. Chi resta deve far buon viso a cattivo gioco, a prescindere dalle convinzioni personali zapatiste o filogovernative.

E’ la strategia della guerra di bassa intensità: frapporre l’ostacolo del terrore e la prospettiva di una vita da braccato tra la coscienza della necessità rivoluzionaria e la concretizzazione della stessa. In altre parole, tagliare i ponti tra gli ideali e la realtà: si sa, l’imposizione fatalistica dello status quo può sedare in molti casi anche gli animi più accesi.

A noi stranieri spetta un compito umano: regalare a questi resistenti un nostro pensiero, donare loro un sorriso di comprensione e coraggio perché non si ritrovino soli sulla pista da ballo.

Un uomo della comunità di S. N., al vederci arrivare, ci diceva con un sorriso mezzo amaro e mezzo di speranza: "Voi avete fatto il giro del mondo per arrivare fin qui; e pensare che c’è gente di O. (la città più vicina, n.d.r.) che nemmeno sa della nostra esistenza. Grazie ...".

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