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QT n. 19, 6 novembre 1999 Cover story

Insetti e piante che scompaiono: la cosa ci riguarda?

Nei boschi e nei campi del Trentino tante specie animali e vegetali sono a rischio. E’ forse in pericolo la “biodiversità” (cioè la compresenza di tante specie, da cui dipende la qualità della vita anche della specie uomo)? Qual’è lo stato di salute complessivo del nostro ambiente? Le risposte degli studiosi.

Sul numero 12 del nostro giornale, è stato ospitato un allarmato intervento (La mortificazione della fauna trentina) dello studioso Gino Tomasi, già direttore del Museo di Scienze Naturali, sul precario destino di alcune specie animali. Nonostante una volta fosse frequente nel nostro paesaggio, parte della fauna, soprattutto insetti, sembra in difficoltà. L’impressione viene confermata da un dato, proveniente da uno studio della Provincia di Bolzano, dal quale risulta che il 40% delle specie presenti su quel territorio risulta in via di scomparsa, potenzialmente minacciato o in ogni caso numericamente indebolito.

Il fatto sarebbe molto preoccupante, perché la salubrità globale dell’ambiente, e in ultima analisi la stessa sopravvivenza della specie umana, è correlata alla compresenza, la più numerosa possibile, di molteplici specie animali e botaniche. E’ il concetto di "biodiversità", per cui la qualità della nostra vita dipende dalla coabitazione con le altre - tante - specie. Per cui, se la sopravvivenza del singolo fiore o insetto, può essere uno scrupolo da esteta o da studioso, la minaccia a molteplici specie, rappresenta anche una minaccia per l’uomo.

In quest’ottica, qual è lo stato di salute del Trentino? L’avvento della società industriale ha portato a una crisi dell’ambiente; quanto ampia?

Il servizio di queste pagine tenta di rispondere a questi interrogativi, attraverso le opinioni di quattro studiosi dell’ambiente. Opinioni non necessariamente concordi (semplificando: ottimisti due, pessimisti uno, l’ultimo sospende il giudizio). Che comunque ci fanno capire quale sia, quali problematiche comporti, nel Trentino odierno, il senso del rapporto uomo-ambiente.

Abbiamo sentito per primo Gino Tomasi, nel piccolo ufficio che ancora mantiene presso il Museo.

Sono lieto di potere continuare questa discussione. A volte agli studiosi mancano sufficienti canali di comunicazione, sia tra di noi, sia con un pubblico più vasto.".

Allora, il 40% delle specie sono a rischio. Davvero la situazione è così pesante?

"In un certo senso sì. La qualità ambientale della nostra regione non può essere valutata dalla presenza, significativa o meno, della fauna superiore, cioè uccelli o mammiferi, come per esempio orsi o caprioli. Si tratta di popolazioni tenute sotto costante controllo e l’intervento umano è talmente frequente, che noi non sappiamo se la loro sopravvivenza sia dovuta a un ambiente accogliente, oppure proprio ai nostri controlli. Se vogliamo che nel parco del Brenta trovi rifugio l’orso, lo prendiamo in Slovenia (dvf). Se i caprioli sono in numero eccedente quello che noi consideriamo il corretto equilibrio tra le specie, diamo maggiore libertà alla caccia. Quello che leggiamo, allora, non sono gli equilibri determinati dall’ambiente naturale, ma semplicemente le tracce del nostro intervento. Possiamo ottenere degli indicatori più attendibili di qualità ambientale da specie che sfuggono al nostro diretto controllo, come per esempio insetti o invertebrati".

Nel suo intervento lei ha riportato dei dati riguardanti la Provincia di Bolzano. Sono disponibili dei dati anche per il Trentino?

"Purtroppo no. I dati provenienti da Bolzano consistono in una così detta Lista Rossa, una sorta di censimento che in base ad accordi internazionali serve a tenere sotto controllo lo stato del nostro ambiente. Proprio per la loro sistematicità, i numeri che vengono riportati sono attendibili. Per la nostra Provincia invece non ci sono dati quantitativi".

Lei, come studioso, avrà comunque una sua impressione in merito. Ci sono animali in via di estinzione?

"Certo, e posso farle qualche esempio. Il cervo volante. E’ un coleottero molto grande, così chiamato per due specie di corna che ha sulla corazza. Una volta era molto frequente, aveva anche un discreto valore collezionistico. Adesso è diversi anni che non ne vedo. Una volta si trovavano tantissimi maggiolini. In certe zone addirittura si raccoglievano in sacchi che, una volta fatti seccare, venivano utilizzati come mangimi. Un altro esempio: i così detti necrofori. La tipica applicazione naturalistica di parecchi anni fa consisteva nel prendere un pezzetto di carne e metterla in un prato. Subito arrivava volando uno di questi insetti, che controllava se era possibile sotterrare la preda. Poi si alzava in volo e tornava assieme ad altri compagni. Ora questo non è più possibile".

Ci sono delle cause precise per tutto questo? E se sì, possiamo in qualche modo intervenire? Non potrebbe essere un fenomeno temporaneo dovuto all’insorgenza di una specie predatrice?

"No, la vastità del fenomeno fa escludere questa ipotesi. Ci sono invece diversi ordini di cause. Le trasformazioni nell’agricoltura, gli interventi sui corsi d’acqua e tutti i fattori riconducibili alla presenza dell’uomo. Il fenomeno appare talmente vasto da essere forse il sintomo di un degrado ambientale più generalizzato. Se parliamo di una specie scomparsa dalla val di Non, allora è chiaro, una ragione può essere l’agricoltura intensiva praticata negli ultimi anni. Ma prendiamo la val di Genova. E’ un ambiente conservato bene. Sulla destra orografica, ci sono alcune piccole valli completamente disabitate. Una volta erano frequentate per l’attività di pastorizia e da qualche cacciatore. Adesso i sentieri non vengono utilizzati da anni, al punto che spesso è difficile riconoscerne la traccia. Eppure, anche se si solleva semplicemente un sasso dal sentiero, nella terra umida non ci sono più insetti".

Cosa implica la scomparsa degli insetti dal nostro ambiente? Molti ritengono che sia un pericolo sopravvalutato.

"Oh no! Insetti come le locuste trasformano le sostanze vegetali in proteine: un ruolo simile a quello del plancton nell’ambiente marino. Si tratta di elementi fondamentali nella catena alimentare. Molti insetti poi sono importanti per l’impollinazione, senza di essi le stesse specie vegetali potrebbero essere in difficoltà. Infine, l’insorgenza di una specie dominante, magari proprio per le difficoltà delle altre, è il preludio all’estinzione totale".

C’è qualche decisione che si sentirebbe di raccomandare? Se non qualcosa da fare, almeno qualcosa da evitare?

"Eviterei la costruzione di impianti di risalita in val Giumela. Un impianto di risalita ha un forte impatto ambientale, oltre che paesaggistico, perché richiede la rastrellatura dei prati e in generale la modifica morfologica dell’ambiente, per rendere il declivio adatto agli sciatori. La val Giumela è una delle poche valli isolate che ci sono rimaste. Lì vivono una flora e una fauna endemica del tutto peculiari. Sarebbe l’ennesimo intervento irreversibile sulle nostre montagne".

Pochi sanno che sull’altipiano delle Viote, sul Monte Bondone, in una posizione splendida, si trova il Centro di Ecologia Alpina, fondato a cavallo tra il 1992 e il 1993 per lo studio dei fenomeni ecologici della nostra provincia. Si tratta di un Centro di Ricerca Applicata che ha raggiunto una certa notorietà anche fuori dai confini trentini. Claudio Chemini, responsabile scientifico del Centro, ci ha accordato una chiacchierata.

Il 40 per cento delle specie animali sono in difficoltà. Condivide l’analisi di Gino Tomasi?

"Sappiamo che per un certo numero di specie è rimasto un numero esiguo di esemplari, ma vorrei essere più ottimista dell’amico Tomasi. Purtroppo, per la nostra provincia, dobbiamo basarci su dati qualitativi o su dati parziali, i quali hanno comunque dignità scientifica, ma sono un po’ più labili. La mia impressione è che ci siano specie in difficoltà, ma la causa va ricercata nei cambiamenti del territorio, in gran parte legati a fenomeni sociali ed economici che hanno toccato la nostra provincia negli anni recenti. La scomparsa o comunque la diminuzione di molti coleotteri (le specie più grandi e vistose) per esempio, potrebbe essere causata dalla scomparsa degli ambienti di fondovalle, o delle colture tradizionali. Nei fondovalle, si è sostituito agli orti lo sfruttamento intensivo di monocolture, come il melo, e ciò ha causato la modifica di un ambiente nel quale certe specie si erano bene adattate. La stessa riduzione delle colture e dei prati di montagna rende difficile la sopravvivenza di alcuni insetti, ma anche di animali più grandi".

Dobbiamo essere pessimisti?

"Forse no. Dobbiamo guardare il fenomeno nella sua globalità. Molte specie esistenti garantiscono la biodiversità, che è una specie di "assicurazione" sulla sopravvivenza del pianeta. Nel caso di modifica dell’ambiente naturale, alcune specie si adatteranno meglio e l’ecosistema, seppur modificato, potrà sopravvivere. Però, quando noi cerchiamo di gestire questi fenomeni, tentiamo di salvaguardare la funzionalità dell’intero ecosistema, non della singola specie".

E’ questo il punto. Ci riusciamo? Anche con dati come quelli della Provincia di Bolzano?

"Io credo di sì, anche se sono dati da non sottovalutare. Se guardiamo ai fenomeni in una prospettiva storica, oppure se confrontiamo la nostra situazione con altre regioni, possiamo essere ottimisti. Le grandi trasformazioni del nostro paesaggio sono sostanzialmente già avvenute, come quelle provocate dall’industrializzazione e dall’inurbazione delle valli. Inoltre ci troviamo con degli spazi naturali, le montagne, che per forza di cose sono meglio preservati rispetto agli ambienti di pianura, dove i problemi sono sicuramente maggiori. Non ultimo, ci muoviamo in un ambiente culturale che ha accettato di porre il problema ambientale tra le sue priorità. Tutto dipende dal nostro comportamento".

A cosa si riferisce? Parla di politiche locali, di nuovi modelli di sviluppo? Non è del tutto ovvio essere ottimisti...

"In primo luogo l’opinione pubblica è più avvertita del problema. A livello scientifico, la salvaguardia della biodiversità è una direzione internazionale di ricerca. Inoltre i vari protocolli internazionali ci vincolano a rispettare certe norme che in futuro potrebbero diventare una fonte di ricchezza. Per esempio: tra gli stati industriali esistono dei protocolli che limitano l’emissione di anidride carbonica e di altri inquinanti. Tuttavia ci sono regioni ricche di foreste che "assorbono" l’anidride carbonica. In questo caso il Trentino si trova in posizione avvantaggiata, perché, di fatto, fornisce un servizio ecologico alla collettività nazionale grazie alle sue foreste e al suo territorio. Non è difficile ipotizzare che questo servizio un giorno venga riconosciuto e retribuito".

Un’altra recente innovazione della nostra Provincia è stata l’introduzione dei biotopi, ovvero di aree protette, dove un difficile equilibrio ambientale viene preservato. Si tratta spesso di porzioni di territorio caratterizzate dalla presenza contemporanea di terra e acqua, come laghetti, stagni, torbiere o rive di fiumi, ambienti dove in precedenza l’opera razionalizzatrice dell’uomo è stata particolarmente pesante. Si pensi alla rettificazione dei fiumi o alle bonifiche. In passato ci sono state rilevanti ragioni economiche e sociali per questi interventi, però il risultato è stato una fortissima riduzione degli habitat favorevoli a numerose specie animali. Per esempio, gli anfibi sono tra le specie più minaccate di tutto il continente europeo.

Su questo tema abbiamo parlato con Claudio Ferrari, direttore dell’Ufficio Biotopi della Provincia.

Allora, Ferrari, il 40% delle specie animali della Provincia di Bolzano sono in sofferenza. E’ un dato che può essere verosimile anche per Trento?

"Non mi è difficile crederlo. Vent’anni di bonifiche e di uniformità delle coltivazioni, con la conseguente scomparsa di siepi e di orti, di interventi sui corsi d’acqua e sui boschi ripariali, non possono non avere lasciato traccia".

Dal vostro punto di osservazione, potete darci un messaggio ottimista o pessimista?

"Proprio l’esperienza che abbiamo con i biotopi può renderci ottimisti. Quello che vediamo è che l’ambiente naturale ha una grande capacità di reazione. E’ sufficiente intervenire con un po’ di attenzione, e subito vediamo che l’habitat reagisce positivamente anche in tempi brevi".

Potrebbe fare un esempio?

"Se lei prende il treno per Verona, si accorge che di fianco ai binari, sulla sinistra appena usciti da Trento, si vede una specie di pozzanghera, che altro non è che il resto di una zona paludosa, che si sviluppava tra i meandri dell’Adige. Uno di questi era nei pressi di Nomi. Se lei vede una foto dall’alto, la configurazione dei campi coltivati mostra chiaramente il vecchio corso del fiume. Qui un intervento di fine ‘800 ha tagliato questo meandro, da cui il nome della zona: ‘Taio di Nomi’. Nel 1992 la zona paludosa era ridotta a un piccolo canneto, che era diventato discarica di inerti e immondizie. Siamo intervenuti molto semplicemente asportando questa discarica per creare un piccolo stagno. Pur essendo di dimensione ridotta, questo luogo è importante come oasi naturale per gli uccelli migratori: lì sono state avvistate specie rare come l’airone rosso. Adesso nidificano germani reali, gallinelle d’acqua.

Un altro esempio della vitalità dell’ambiente naturale: pochi giorni fa sono stato per un controllo alla Rocchetta, un ambiente fluviale creato dal Noce nella bassa Val di Non, dove la corrente è molto lenta. Nel giro di una passeggiata di un‘oretta, abbiamo incontrato 5 specie diverse di libellule. E le libellule sono insetti molto rari".

Par di capire che il vostro è un intervento non di pura conservazione, ma anche di ripristino o comunque di manutenzione dell’esistente.

"Spesso non può che essere così. Operiamo in ambienti dove l’intervento dell’uomo è stato molto pesante in passato. Per esempio, c’è un biotopo, il Nocino, che è stato ricavato da una precedente incanalizzazione del secolo scorso. Dove il Noce entrava in Adige, presso S.Michele, c’era un terreno molto paludoso. L’amministrazione austro-ungarica intervenne con un canale artificiale che deviava l’immissione del Noce qualche chilometro più a valle. Si parla del 1850, circa. Settant’anni più tardi ci fu una inondazione e il letto del fiume si spostò ulteriormente verso ovest, sotto la montagna, dove corre tuttora. Il vecchio canale, detto il Nocino, era ridotto a una specie di fosso. Il nostro intervento è consistito nel renderlo più profondo, in modo che non fosse più un canale morto. Nel giro di pochi anni i risultati sono sorprendenti. L’ambiente è stato rapidamente colonizzato da numerosi anfibi. E’ stato subito avvistato il Martin Pescatore, e persino due tipi di pesce, assolutamente insoliti, quali il luccio e lo spinarello hanno ripopolato la zona".

Questi risultati, oltre a rendere l’ambiente più gradevole, potrebbero anche avere delle ricadute economiche?

"L’esperienza che abbiamo ottenuto dall’intervento diretto nel sistema dell’ambiente ci ha permesso di progettare forme di disinquinamento abbastanza nuove. Infatti il sistema delle piante acquatiche è importanti per la depurazione delle acque, attraverso il meccanismo di fotosintesi. Nel nostro linguaggio si chiama ‘fitodepurazione’. Proprio vicino a Mezzolombardo, su di un affluente del Noce, la Roggia di Fai, si sono verificate in passato morie di pesci, a causa delle sostanze inquianti della zona industriale attraversata. Il nostro intervento è stato allora quello di creare un ‘lagunaggio artificiale’. Il fiume viene incanalato in un sistema di vasche artificiali, vere e proprie e lagune, allo scopo di depurare l’acqua dagli inquinanti. L’acqua impiega così fino a sei giorni per attraversare l’intera laguna e ne esce depurata. A valle, abbiamo osservato la presenza di pesci e anfibi prima assolutamente assenti. In questo caso, l’intervento era su di una zona fortemente degradata, che è stata migliorata anche dal punto di vista paesaggistico".

I biotopi sono quindi un‘esperienza pienamente riuscita...

"Piano: la strada ancora è lunga. Certo, sono stati fatti numerosi passi avanti, soprattutto culturali. Siamo diventati operativi nel 1992 e i primi anni sono stati molto duri. Gli abitanti delle zone su cui i biotopi erano stati istituiti, inizialmente li consideravano una intromissione nelle loro abitudini e nelle loro economie. Anche a livello istituzionale, fino al 1995 c’era chi riteneva che questa fosse un‘esperienza da chiudere al più presto. Un colpo a nostro favore è stato l’arrivo di fondi europei, circa due miliardi, di cui avevamo fatto richiesta. Questo ci ha dato una legittimazione importante. Ora le popolazioni locali hanno iniziato ad accettare la presenza dei biotopi, perché questi non si sono dimostrati un elemento estraneo alla loro economia. In alcune zone contribuiscono a diversificare l’offerta turistica. E’ ridicolo pensare che chi visita la nostra regione non lo faccia anche per godere dei paesaggi e della natura che qui può ancora incontrare. Inoltre i biotopi hanno bisogno di manutenzione e questo crea posti di lavoro. Io credo che grazie all’esempio concreto di cosa sia una forma di sviluppo ecocompatibile, abbiamo disseminato delle idee più positive a questo riguardo".

Cosa rimane da fare, secondo lei?

"Credo che i parchi nazionali della nostra regione potrebbero essere rilanciati proprio sotto l’aspetto di una maggiore integrazione con l’economia del territorio. Anche gli agriturismi, o le coltivazioni ecologiche, potrebbero essere maggiormente sviluppate. Se guardiamo le altre regioni, Toscana, Sicilia o Sardegna per esempio, vediamo che questa è una strada percorribile per ottenere risultati economici assieme alla conservazione dell’ecosistema. Viceversa, la politica agricola della Provincia ha favorito la coltivazione intensiva delle monocolture. Ma il Trentino è abbastanza diverso dalla Val Padana, mi sembra".

L'ultimo nostro incontro, raccomandato dallo stesso Ferrari, è con Filippo Prosser, conservatore botanico presso il Museo Civico di Rovereto, che sta terminando i lavori di rilevamento per l’atlante della flora del Trentino; in questo ambito è stata raccolta un’enorme mole di dati, attualmente oltre 600.000, dai quali è possibile trarre significativi bilanci riguardanti lo stato di salute della flora spontanea del Trentino.

Prosser, può descriverci questa banca dati?

"L’intero territorio della provincia è stato suddiviso in circa 200 zone, nelle quali sono state censite tutte le specie botaniche presenti. E’ tutto informatizzato. Se noi digitiamo il nome di una pianta, sulla mappa appare evidenziata la zona dove questa è presente. Inoltre è possibile accedere a una breve scheda che ci dice il luogo esatto dove è stata localizzata, e da chi.

Per esempio, se noi digitiamo ‘Salix caesia’, vediamo che è presente solo nella zona di passo Pordoi. Vediamo inoltre che è stato censito un solo esemplare, tra l’altro in una zona un po’ sfortunata, tra la strada e un impianto di risalita. Questa meticolosità ci permette di fare confronti tra la situazione antica , che conosciamo grazie all’immissione delle segnalazioni di fonti bibliografiche e di vecchi erbari, con la situazione attuale e gli anni a venire, e verificare se ci sono specie che si sviluppano o che arretrano".

L’impressione qual è? Abbiamo specie botaniche in pericolo?

"Abbiamo alcune piante che sono minacciate. Su circa 2.400 varietà botaniche presenti sul territorio, circa il 23% sono in condizioni di pericolo. Attenzione però: non vuol dire che stanno sparendo dal pianeta, vuol dire che hanno difficoltà a sopravvivere nella nostra regione".

Quali sono le specie più in difficoltà? Ci sono delle cause immediate?

"Ci sono due tipi di minaccia. Vi è una difficoltà dovuta alle modifiche dell’ambiente circostante. E le ragioni possono essere le più varie. Per esempio, l’abbandono dei prati magri sta mettendo in pericolo alcune specie di orchidee. I prati magri sono quelli che una volta venivano utilizzati senza concimazione, per esempio per il pascolo delle capre, attività che ora è scomparsa. Così i prati magri vengono riconquistati dal bosco. In generale la manutenzione del prato è difficile, però è anche molto importante per l’ecosistema. L’amministrazione provinciale garantisce attraverso dei fondi appositi lo ‘sfalcio’ dei pascoli, cioè il taglio dell’erba per farne del fieno.

Però, per garantire in pieno la sopravvivenza di questo ecosistema, sarebbe necessario ritornare a forme di agricoltura di tipo estensivo, come in passato. E’ una cosa improponibile allo stato attuale delle cose, sebbene in Austria, Svizzera e Germania la cosa venga praticata.

Vi sono poi pericoli puntuali, derivanti dall’intervento diretto dell’uomo in una zona, per esempio per la costruzione di dighe o cave. Se digito il nome di una piccola felce, ‘Botrychium simplex’, vede? E’ presente solo in questa zona".

E’ la Val Giumela.

"Esatto. E’ una delle specie in pericolo a livello mondiale, e in Italia è l’unico luogo dove è presente".

In base alla vostra lista, quali sono gli ecosistemi più delicati?

"Sulle 551 specie che noi consideriamo in difficoltà, la maggior parte, 173 specie, sono caratteristiche di luoghi umidi, come alvei fluviali, torbiere o acque stagnanti. E’ interessante notare che di queste specie, la maggior parte vive in zone protette, dandoci così l’idea dell’importanza della conservazione di questi luoghi. Infatti è una proporzione che si ribalta quando consideriamo piante caratteristiche dei coltivi. In questo caso, la maggior parte vive in zone non protette".

Ferrari, parlando dei biotopi, ci diceva che l’ecosistema mostra una grande vitalità quando si interviene nella sua conservazione...

"Questo è vero, però vorrei sottolineare che l’ambiente botanico è più fragile e più difficile da conservare di quello faunistico. Alcune piante di torbiera, per sopravvivere, hanno bisogno di strati di torba depositati da secoli. Se questi non ci sono più, non c’è manutenzione possibile. In ambiente acquatico poi, è molto importante lo sfalcio periodico della canna di palude o della molinia, perchè sono piante così resistenti e adattabili che tendono a sopraffare le altre specie".

Per finire, come le sembra il clima culturale nel quale si svolgono questi interventi di salvaguardia ambientale?

"Questa primavera stavo eseguendo censimenti floristici in una zona della Val di Ledro in cui vi era in quel momento un’imponente fioritura di bucaneve. Ce n’erano ovunque, era impressionante. Incontrai un contadino, il proprietario del campo che stavo esaminando. Mi disse: ‘Cosa fa qui?’, gli risposi: ‘ Sono un botanico, sto studiando i fiori.’. Lui disse: ‘Fiori? Ma qui non ci sono fiori!’. Ecco, sarebbe già importante che la gente riuscisse a ‘guardare’ in modo diverso".

Abbiamo cercato di dare la voce agli operatori che con passione e interesse si occupano della salvaguardia dell’ambiente della nostra provincia. Alcune delle questioni toccate sono inevitabilmente tecniche: coinvolgono l’amministrazione provinciale, le leggi e i fondi che possono favorire queste politiche. Ma è anche altrettanto difficile dare un giudizio sulla inevitabilità che alcune specie animali o vegetali devono incontrare nell’equilibrio tra il loro ambiente e il nostro. Questo dipende da come guardiamo l’ambiente circostante, come ha concluso Prosser.

Allora l’autore di queste interviste si permette di segnalare che il materiale divulgativo dell’ufficio biotopi è di qualità davvero alta. Si tratta di mappe e di spiegazioni ambientali che forniscono materiale illustrativo per le tipiche passeggiate fuori porta. Questo materiale può essere richiesto, presso l’Ufficio Biotopi della Provincia Autonoma, alle torri di Trento Nord.