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QT n. 11, novembre 2025

Franca Turra

Il lungo silenzio di Anita

Franca Turra, al secolo Francesca Sosi Turra, nasce nel 1918 ad Avio da famiglia socialista, si trasferirà poi con i genitori a Bolzano, dove Franca sarà impiegata all’Ufficio del lavoro e sposerà Vittore Turra, laureato in Legge, impiegato in Camera di Commercio e di fede fascista. Ufficiale di carriera nell’Esercito, Vittore, partirà il 3 maggio 1940 – ad appena 8 giorni dalla nascita della loro figlia Gabriella – per l’Africa e verrà catturato successivamente dagli inglesi per tornare dalla prigionia in India soltanto nel novembre 1946.

Franca resta quindi sola con la piccola Gabriella quando, all’annuncio dell’armistizio di Cassibile, in Italia si scatena il caos e Bolzano, occupata dalle truppe naziste, viene incorporata con Trento e Belluno nella Zona d’operazione delle Prealpi e annessa di fatto al Reich. Si tratta di un momento cruciale per Franca, che nell’atmosfera repressiva dell’occupazione nazista, vedendo i militari italiani ammassati lungo il greto del Talvera tenuti sotto tiro dalla Wehrmacht, viene colta da un moto di ribellione.

Gli eventi dell’8 settembre rappresentano indubbiamente per lei – come per molti altri e soprattutto per molte altre donne – un punto di non ritorno, come se dopo anni di intorpidimento alimentato dalla propaganda di regime, improvvisamente si aprisse uno spiraglio da cui vedere il mondo con sguardo lucido, lasciando finalmente affiorare la pena, la rabbia, l’indignazione, ma soprattutto il forte senso di solidarietà e l’urgente necessità di reagire nella piena consapevolezza che per chi ospita e aiuta a fuggire i soldati italiani è prevista la pena di morte.

A partire da questo momento una straordinaria determinazione guida ogni sua azione. Sconcertata nell’assistere al continuo passaggio di treni stipati di soldati e civili – destinati alla deportazione nel Reich – che gettano bigliettini nella speranza che qualcuno li raccolga e scriva per loro a casa, Franca se ne fa carico e inizia così a corrispondere con le madri, le sorelle, le mogli o le fidanzate dei soldati e dei civili deportati.

Franca contatta infine Manlio Longon, a capo del CLN clandestino di Bolzano, e tramite lui conosce Ferdinando Visco Gilardi (Giacomo), che a fine ottobre del ’44 – a pochi mesi dall’apertura del Lager a Bolzano – mette in piedi un’organizzazione che si occupa dell’assistenza al Lager. Giacomo ha infatti accettato la proposta dell’amico Lelio Basso di occuparsi degli aiuti agli internati e ricevuto da lui i contatti interni nella persona della dott.ssa Ada Buffulini e, in seguito, di Laura Conti. Prende così il via la vasta e capillare rete clandestina di aiuti – supportata dal CLN di Milano – che fornisce informazioni, pacchi di prima necessità per gli internati, consegnati quotidianamente e confezionati sempre in modo diverso per non destare sospetto. Oltre a ciò l’organizzazione pianifica minuziosamente le evasioni, grazie anche all’attento sistema informativo in grado di fornire notizie sui nuovi ingressi nel Lager e sulle partenze per i campi di sterminio tedeschi. Franca (Anita) ha un ruolo importante nell’organizzazione, a fianco di Giacomo e della moglie Mariuccia. Tra il 15 e il 20 dicembre vengono però arrestati quasi tutti i membri del CLN clandestino di Bolzano – don Daniele Longhi, Rinaldo Dal Fabbro, Longon, Enrico Pedrotti e lo stesso Gilardi, assieme a molti altri membri della Resistenza – “interrogati” al Corpo d’Armata e rinchiusi nel blocco celle del campo. L’organizzazione di aiuti al Lager subisce così un’improvvisa battuta d’arresto.

Franca Turra. Enrico Pedrotti su gentile concessione di G.Turra

Passato il primo momento di dolore e di sconcerto, sarà Anita a prendere le redini di tutta l’organizzazione con l’aiuto di Mariuccia Visco Gilardi, di moltissime donne e di intere famiglie che vivevano alle semirurali, per non parlare degli operai degli stabilimenti industriali e molti altri. Sembrerebbe un’impresa titanica questa per una giovane donna lavoratrice come Franca, con una figlia di appena 4 anni e un marito prigioniero in India con cui lei – pur mantenendo un intenso scambio epistolare – non potrà mai lasciarsi sfuggire nulla. Sarà un lungo silenzio quello di Anita, che racconterà pubblicamente questa sua “avventura” una sola volta e con il chiaro intento di renderla un racconto corale, reso possibile grazie alla collaborazione di tutti.

Molte sono le donne impegnate nella Resistenza che si sono sottratte all’incombenza di raccontare, diversi possono essere i motivi di questo silenzio. Un silenzio che porta con sé una sorta di pudore, perché quello che hanno visto accadere alle loro compagne e ai loro compagni era indicibile. Forse proprio questo dolore taciuto ha reso i legami tra loro più saldi e, per chi direttamente o indirettamente ha avuto esperienza del Lager a Bolzano, questo sottile filo di dolore ha contribuito ad alimentare un profondo legame di amicizia e di forte impegno civile che si è mantenuto saldo nel tempo e permane ancor oggi fra i loro figli.

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