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Ucraina un anno dopo

Fine della guerra in vista ?o nuovi scenari apocalittici? I calcoli sbagliati di tutti gli attori.

Dopo un anno dall’inizio della guerra ucraina, voltandoci indietro, ci si accorge che molte cose sono cambiate, e non solo nei campi di battaglia o nelle relazioni internazionali. È evidente che, come dice un vecchio detto, le guerre si sa come cominciano ma non si sa come finiscono. L’imponderabile ha spesso il sopravvento evidenziando, ex post, errori madornali di valutazione se non errori strategici di portata letale. Nel caso della guerra in corso, l’esemplificazione abbonda. I russi avevano scommesso su una sorta di guerra lampo, fidando durante il loro iniziale assalto a Kiev su quinte colonne all’interno dell’esercito ucraino che poi non sono emerse (o forse furono scoperte e soppresse tempestivamente). Sicché nel giro di pochi mesi Putin dovette riformulare i (dichiarati) suoi obbiettivi minimi: non più il crollo del regime di Zelenski e la “denazificazione” dell’Ucraina,bensì la difesa del Donbass e la conquista almeno del resto di quella regione ancora in mano agli ucraini. Da ottobre tuttavia, dopo aver subito una controffensiva ucraina estiva di grande successo nella zona di Kharkiv, i russi hanno cambiato tattica: hanno proceduto a un massiccio e sistematico attacco aero/missilistico e soprattutto con droni iraniani su tutte le strutture elettriche e logistiche dell’Ucraina, gettando il paese nel buio e nel freddo alle soglie dell’inverno. Nel frattempo la mobilitazione delle riserve (si diceva 300.000 uomini all’inizio, ma ora si parla di almeno 500.000 se non di più) e il miglioramento della catena dei rifornimenti al fronte hanno progressivamente spostato a favore dei russi le sorti della guerra. Intorno a Bakhmut sono state decimate le migliori unità dei due eserciti contrapposti, in una sanguinosissima battaglia di logoramento che ha sortito l’effetto voluto dallo stato maggiore russo: gli ucraini sono ora a corto di munizioni e di mezzi, e soprattutto di uomini, tanto che ormai si reclutano persino i sedicenni e spesso uomini abili alla leva vengono fermati per strada, portati di peso in centri di arruolamento e spediti al fronte. Problemi analoghi, sia pure di minore gravità, hanno sofferto i russi, che non hanno esitato ad arruolare gli avanzi delle patrie galere, in attesa che le riserve mobilitate completino l'addestramento.

Ma anche gli Stati Uniti a quanto pare hanno sbagliato alcun calcoli, e su più di un fronte. Con le sanzioni avevano calcolato di strangolare la Russia in pochi mesi, mentre invece queste si sono largamente ritorte contro i sanzionatori, soprattutto gli europei. Famiglie e industrie si sono trovate salatissime bollette invernali, mentre l’aumento dei prezzi dei beni energetici e alimentari rimpinguava le casse di Putin; e persino rivalutava il rublo divenuto ormai valuta di scambi internazionali in tutto l’oriente centroasiatico e, in modo crescente, persino negli scambi con India, Cina e Iran.

Un errore di calcolo non minore ha riguardato la valutazione della capacità delle fabbriche americane e europee di produrre abbastanza armi da rimpiazzare quelle che giornalmente vanno distrutte in Ucraina. Dato fondo ai magazzini degli eserciti NATO, anche un po’ nell’ottica di sbarazzarsi di armi relativamente obsolete ma comunque utili per gli ucraini, le industrie belliche sono in difficoltà non solo per rifornire l’esercito di Zelenski, ma anche per ricostituire il fondo di armi degli eserciti della NATO, pericolosamente assottigliato.

Il tutto mentre il fronte interno, ossia l’opinione pubblica, rumoreggia sempre più contro l’invio continuo di armi, che a molti sembra solo un prolungare a tempo indefinito l’agonia delle popolazioni ucraine. E qui l’errore di valutazione è stato enorme: gli USA pensavano a un crollo del consenso intorno a Putin che non c’è stato e anzi, secondo vari analisti, sarebbe pure cresciuto; al contrario in America ormai il partito repubblicano di un redivivo Trump ha detto a chiare lettere che il sostegno a Kiev deve avere termine, che non è interesse degli USA logorare e consumare le proprie risorse in una guerra infinita alla Russia, quando il vero avversario geopolitico è la Cina, che intanto sta rafforzando i suoi arsenali a ritmo accelerato.

In Europa non va meglio: i governi ufficialmente continuano ad accogliere le richieste pressanti di Zelenski, però devono fare i conti con l’insofferenza della pubblica opinione stanca della guerra e ormai in modo crescente conquistata, se non da idee pacifiste, quantomeno da un realismo interessato, che vorrebbe arrivare il più presto a una tregua se non a un pace con la Russia. In questo clima è esplosa la “bomba” Seymour Hersh, il giornalista americano premio Pulitzer che ha rivelato quel che tutte le cancellerie europee sapevano, ossia che gli USA (si è scoperto in collaborazione con la Norvegia) stavano dietro al sabotaggio del North Stream 1 e North Stream 2, le pipelines che rifornivano l’industria europea di gas a buon mercato.

Non meraviglia in questo clima l’uscita di Berlusconi, che senza mezzi termini ha biasimato Zelenski, la cui politica aggressiva nel Donbass sarebbe colpevole ai suoi occhi della progressiva degenerazione dei rapporti russo-ucraini e del rischio ora incombente di guerra nucleare. Il vecchio leader ha sconsigliato il governo dal continuare la politica di invio delle armi senza un preciso impegno da parte ucraina a un compromesso con Putin.

Che Berlusconi si ritrovi in straordinaria sintonia con le correnti pacifiste laiche o cattoliche può essere sorprendente; di sicuro, egli ha dato voce a un sentimento ampiamente diffuso tra la gente che “con la pancia” ha intuito come nulla di buono possa arrivare dalle tesi di Zelenski secondo cui la guerra terminerà solo “con la completa riconquista del Donbass e della Crimea”. Insomma, il vento sta cambiando anche nell’opinione pubblica. I governi europei peraltro cominciano a capirlo e lo si vede bene nella recente querelle sui carri armati da inviare a Zelenski: mentre, a parole, promettevano centinaia di tank, nei fatti si sa che difficilmente ne arriveranno in Ucraina più di qualche decina (e neppure dell’ultimo modello) che di certo non faranno la differenza sul campo.

I comandi militari NATO sanno che Zelenski non potrà mai recuperare né la Crimea né il Donbass e che la retorica della vittoria del presidente ucraino è appunto retorica e basta. Per riconquistare quei territori Zelenski avrebbe bisogno non solo di carri armati e aerei, bensì di portare gli eserciti della NATO al suo fianco nel campo di battaglia. Cosa esclusa in partenza dagli europei e dallo stesso Biden che, a meno di due anni dalle prossime elezioni, non può permettersi di mandare truppe in Ucraina a rischio, questa volta sì, di una guerra diretta a tutto campo con la Russia di Putin. Il problema degli americani ormai è solo uno: come uscire dal pantano ucraino senza perdere troppo la faccia e prima che sia troppo tardi (Afghanistan docet…). In fondo, il loro obiettivo principale è stato raggiunto: Europa e Russia sono “disconnesse”, per almeno una generazione non si parlerà più di gas russo a buon mercato per le industrie tedesche, e gli europei più che mai sono oggi vassalli pienamente sottomessi all’egemone d’Oltreoceano.

Alcuni scenari

Ma c’è sempre, come si diceva all’inizio, l’imponderabile, che al momento in cui scriviamo potrebbe venire da almeno due direzioni. Nel Baltico, il mare interno tra la penisola scandinava e la Polonia, la marina russa avrebbe schierato navi con armamenti missilistici nucleari, per intimidire i paesi rivieraschi. Quel che si sospetta è che, dopo le rivelazioni clamorose sul sabotaggio americano-norvegese del North Stream, i russi abbiano in animo di ripagare con la stessa moneta lo sgarbo subito, cominciando dalla Norvegia. Secondo le rivelazioni del giornalista americano summenzionato le navi della U.S. Navy, coperte da una esercitazione NATO, avrebbero posto l’esplosivo sulle pipelines del North Stream già nel giugno dello scorso anno, mentre i norvegesi avrebbero azionato il timer e fatto esplodere le pipelines a settembre, dopo avere avuto l’OK da Washington. Non è un caso che, pochi giorni dopo l’esplosione, la Norvegia annunciava l’attivazione di una sua pipeline sottomarina che ha prontamente soccorso i poveri industriali tedeschi con il gas norvegese. La Norvegia insomma - se il sospetto è fondato - sarebbe il primo paese NATO a subire una rappresaglia russa, con conseguenze immaginabili: il giorno dopo la NATO dovrebbe decidere se considerare la rappresaglia un casus belli oppure far finta di niente e accettare che la Russia si sia presa la sua “legittima vendetta”, sperando magari che intenda fermarsi lì. In ogni caso, parlare ancora di conflitto limitato all’Ucraina sarebbe da quel momento impossibile.

L’altro fronte caldo è la filo-russa Transnistria, la regione secessionista della Moldavia, sotto protettorato dei russi che vi mantengono enormi depositi di munizioni e una guarnigione di 15000 uomini. La prospettata offensiva russa di primavera potrebbe mirare alla conquista di Odessa partendo non solo dal Donbass-Crimea ma anche dalla Transnistria. Si è recentemente speculato sullo scenario di una preventiva invasione ucraina della Transnistria, che coglierebbe due obiettivi: 1. impadronirsi di depositi di munizioni russe, di cui l’esercito di Zelenski è sempre alla disperata ricerca; e soprattutto 2. di fronte alla prevedibile reazione russa, allargare il conflitto a Moldavia e Romania che probabilmente non resterebbero a guardare. Ognuno può intendere come questi due scenari sarebbero forieri di esiti imprevedibili, con un probabile e poco auspicabile allargamento del conflitto ai paesi della NATO da un lato e dall’altro, verosimilmente, con un coinvolgimento dell’alleato più potente della Russia ossia la Cina di Xi Jinping.

Resta, nel caso augurabile che nessuno di questi scenari apocalittici si avveri, la probabilità che, in mancanza di adeguati rifornimenti dalla NATO, Zelenski sia indotto a firmare un cessate il fuoco con Putin che, c’è da scommetterlo, non accetterà una tregua prima di avere scatenato la sua offensiva di primavera e riconquistato abbastanza territori nel Donbass da poter sbandierare come un successo l'Operazione Speciale partita il 24 febbraio 2022. Solo obtorto collo, e costretto dagli USA, Zelenski si piegherebbe a firmare un cessate il fuoco che segnerebbe la “coreizzazione” della crisi ucraina, cristallizzando la sua divisione in due stati, con la Nuova Russia (composta dalle province occupate dai russi, piene di immense risorse minerarie e alimentari) per sempre perduta. Il giorno dopo Zelenski dovrebbe spiegare agli ucraini se valeva la pena pestare il piede all’Orso russo negli otto anni di guerra nel Donbass (dal 2014), e con ogni probabilità sarebbe costretto alle dimissioni, se non alla fuga. Ma i pessimisti propongono anche un altro scenario, che si basa sulle discrete ma intense crescenti relazioni tra Zelenski e il governo israeliano. L’Ucraina non uscirebbe più da uno stato di belligeranza perpetua sia pure a bassa intensità, trasformandosi gradualmente in una sorta di stato-fortezza, via via rinforzato militarmente dalla Nato da un lato e dagli israeliani dall’altro, e divenendo di fatto una permanente spina sul fianco dell’impero di Putin. Sarebbe la rinascita della Khazaria, lo strano potente impero turco-ebraico che sorse e prosperò per tre secoli, dall’VIII al XI, proprio tra la Crimea e il Volga. Fantapolitica? Qualcuno in Israele già comincia a parlare di Ucraina-Khazaria come secondo focolare della diaspora ebraica nel mondo.