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Holodomor (lo sterminio per fame)

Lo sterminio per fame di milioni di ucraini, voluto da Stalin, per imporre la collettivizzazione della terra. Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Nel 1929 la politica di collettivizzazione promossa da Stalin costrinse milioni di contadini russi a consegnare allo Stato bestiame, attrezzi e ogni scorta alimentare. È l’inizio di una catastrofica carestia, che causò, tra il 1931 e 1933, oltre 5 milioni di vittime, in gran parte nella Repubblica socialista di Ucraina. Un vero e proprio sterminio per fame (in ucraino, “Holodomor”), frutto della operazione architettata da Mosca e attuata con particolare ferocia nel “granaio d’Europa”: la campagna doveva fornire ogni possibile risorsa alla crescita delle città e dell’apparato industriale e militare.

La figura dell’espropriatore violento, che, pistola in pugno, chiedeva generi alimentari, era familiare all’Ucraina sovietica. Uomini del genere erano comparsi nel 1918 e 1919 alla ricerca di grano per dare da mangiare alle loro truppe. Erano tornati nel 1920, quando i bolscevichi avevano riconquistato il potere. Si erano rifatti vivi nel 1928 e 1929, quando era iniziata una nuova penuria alimentare. Si fecero rivedere nell’inverno del 1932-1933, ma il loro comportamento era cambiato. Istruzioni scritte che regolassero il comportamento dei militanti non ne sono state trovate. Ma un gran numero di testimonianze di storia orale attesta un netto cambiamento.

Quell’inverno le squadre operanti nei villaggi dell’Ucraina si diedero a perquisire alla ricerca non solo di cereali, ma di qualunque prodotto alimentare. Erano armate di lunghe aste metalliche, a volte dotate di uncini, in grado di penetrare varie superfici. Migliaia di testimoni hanno raccontato come venissero usate per sondare e sfondare forni, letti, culle, pareti, bauli, camini, sottotetti, tetti e cantine; per cercare grano nascosto dietro icone, in botti, in tronchi d’albero cavi, nelle cucce dei cani, in fondo a pozzi e sotto mucchi di spazzatura. Come i requisitori del passato, cercavano cereali. Ma, in più, prendevano frutti dagli alberi, sementi e verdure dagli orti, nonché miele, burro e latte, carne e salsicce. Le brigate, avrebbe ricordato Ol’ha Cymbaljuk, portavano via “farina, cereali, tutto ciò che veniva conservato nei vasi, vestiti, bestiame. Era impossibile nascondere qualcosa. Perquisivano con aste di metallo, cercavano dentro le stufe, distruggevano i pavimenti, i muri”.

I militanti, avrebbe scritto MarijaBendryk, “si prendevano tutto. Guardavano nei barattoli delle conserve in cucina; a uno portavano via fagioli, a un altro croste secche. Scuotevano i barattoli e li portavano via”. Anna Suchenko avrebbe ricordato che dare informazioni era “popolare”: chi permetteva di scoprire il cibo nascosto da qualcun altro ne riceveva fino a un terzo come ricompensa. La famiglia di Ihor Buhajevyc, della provincia di Poltava, sopravvisse perché sua madre, che lavorava a Leningrado, spediva periodicamente a casa pacchi di croste di pane secco. Ma i pacchi suscitarono il sospetto del direttore dell’ufficio postale, che si presentò a casa loro accompagnato da un militante per scoprire che cosa contenessero. Il militante ne requisì la metà.

Le brigate chiedevano anche soldi. I contadini erano soggetti a una legge del 1929, che comminava loro, per il grano che non riuscivano a produrre, ammende che potevano arrivare fino a 5 volte il suo valore. Mettere insieme somme del genere era da tempo un problema. Nel dicembre 1932 Lazar’ Kaganovic, stretto sodale di Stalin in Ucraina, scrisse nel suo diario che gli agricoltori erano stati multati nella Repubblica per 7,8 milioni di rubli, di cui, tuttavia, erano stati incassati solo 1,9 milioni. Vlas Cubar aveva debolmente spiegato la cosa dicendo che non avevano “niente da vendere”. Ma nell’autunno del 1932, perché i contadini potessero pagare quelle somme, furono organizzate aste di mobili e altri beni: “Quando un contadino pagava la tassa, gliene veniva poi imposta un’altra, più alta. E poiché mio padre non poteva pagare questa tassa ulteriore, fu indetta un’asta, furono venduti un magazzino e un capanno”. A volte quelle richieste avevano poco a che vedere con le imposte: in un villaggio, a chiunque avesse parenti negli Stati Uniti fu chiesto di consegnare i soldi che si presumeva avesse ricevuto dall’estero.

Col passare delle settimane, il solo fatto di essere rimasti in vita divenne sospetto: se una famiglia non era morta, voleva dire che aveva del cibo. Ma se aveva del cibo avrebbe dovuto consegnarlo, e se non l’aveva consegnato doveva essere una famiglia di kulak, agenti polacchi, nemici. “Com’è possibile che in questa famiglia nessuno sia ancora morto?” chiesero i membri di una brigata andata a perquisire la casa di Mychajlo Balanovskij, nella provincia di Cerkasy. E quelli di un’altra brigata, dopo aver perquisito la casa di Hryhorij Moroz, nella provincia di Sumy, senza riuscire a trovare niente di commestibile, s’interessarono: “Come fate a campare?”. Col passare dei giorni il linguaggio si fece più spietato: “Perché non siete ancora spariti? Perché non siete ancora morti stecchiti? Come mai siete vivi?”.

Kiev, Memoriale dello Sterminio

Una lenta morte

La consunzione per fame di un corpo umano segue sempre lo stesso corso. Nella prima fase il corpo consuma le sue scorte di glucosio. Si hanno sensazioni di fame acuta e si pensa costantemente al cibo. Nella seconda fase, che può durare settimane, il corpo inizia a consumare i propri grassi, e l’organismo s’indebolisce drasticamente. Nella terza fase, il corpo divora le sue proteine, cannibalizzando tessuti e muscoli. Infine, la pelle diventa sottile, gli occhi si dilatano, le gambe e il ventre si gonfiano, perché squilibri estremi inducono il corpo a trattenere l’acqua. Piccoli sforzi prostrano fino all’estenuazione. Lungo il percorso, possono affrettare la morte diversi tipi di malattie: scorbuto, marasma, polmonite, tifo, difterite, e una vasta gamma di infezioni e malattie della pelle causate direttamente o indirettamente dalla mancanza di cibo.

Tetjana Pavlycka, che viveva nella provincia di Kiev, ricordava che sua sorella Tamara “aveva una grande pancia gonfia, e il collo lungo e sottile come quello di un uccello. Le persone non sembravano persone, erano più simili a spettri affamati”. Un superstite raccontava che sua madre “sembrava un barattolo di vetro pieno di chiara acqua di fonte. Il corpo era trasparente e pieno d’acqua, come un sacchetto di plastica”. Un altro ricordava il fratello sdraiato, “vivo ma completamente gonfio, il corpo luccicante come se fosse di vetro”. Un altro riferiva di come tutti si sentissero “intontiti”: “Tutto era come annebbiato. Avevamo terribili dolori alle gambe, come se qualcuno ci stesse strappando i tendini”. Un altro non riusciva a liberarsi dell’immagine di un bambino seduto, che dondolava il corpo avanti e indietro, recitando a mezza voce un unico, interminabile “cantico”: “Mangiare, mangiare, mangiare”.

Anche uno di quelli mandati ad aiutare nelle requisizioni, avrebbe ricordato i bambini: “Tutti uguali: le teste come pesanti gusci, il collo magro come quello di una cicogna, ogni movimento delle ossa visibile sotto la pelle su braccia e gambe, la pelle stessa come una garza gialla tesa sui loro scheletri. E le facce di quei bambini erano vecchie, esauste, come se avessero già vissuto per settant’anni. E i loro occhi, mio Dio!

In una situazione del genere, le norme della morale comune non avevano più senso. Rubare divenne una pratica diffusa. Come lamentò una lettera anonima inviata al comitato provinciale di Dnipropetrovs’k: “Non c’è alcuna garanzia che qualcuno non entri con la forza, si prenda l’ultimo cibo che vi resta e magari vi ammazzi. Dove chiedere aiuto?”.

La fame rese tutti apatici. La gente stava seduta su panche nell’aia, sui bordi delle strade, a casa, e non faceva un passo. Villaggi pieni di vita si fecero silenziosi, ricordava Mykola Proskovcenko, che sopravvisse alla carestia nella provincia di Odessa. “C’era ovunque uno strano silenzio. Nessuno gridava, gemeva, si lamentava... Dappertutto c’era indifferenza: la gente era gonfia o completamente esausta”.

“Nessuno prova dispiacere per nessuno” scrisse Halyna Budanceva. “Non si desidera niente; nessuno ha più voglia neanche di mangiare. Si vaga senza meta per il cortile, per le strade. Ma dopo un po’ mancano le forze. Ci si sdraia e si aspetta la morte”.

In un lungo rapporto inviato a Kaganovic e Kosior nel giugno 1933, un funzionario del partito che lavorava nel distretto di Kam’jans’kyj riferì che le persone stavano morendo di fame a migliaia. Portò esempi di gente che moriva nei campi durante il lavoro o mentre ne tornava, o non riusciva nemmeno a uscire di casa. Ma anch’egli aveva notato la crescente indifferenza: “La gente si è spenta, non mostra la minima reazione. Né alle morti né al cannibalismo, a niente”.

L’indifferenza si estese alla morte stessa. Nei funerali ucraini avevano avuto un ruolo sia la Chiesa sia tradizioni popolari, che implicavano un coro, un pasto, il canto di salmi, letture dalla Bibbia, a volte le tradizionali prefiche. Ora tutti quei riti erano vietati. Per una cultura che aveva dato grande importanza ai suoi rituali, l’impossibilità di dare al defunto un degno saluto fu un altro trauma: “Non c’erano funerali. - avrebbe ricordato Kateryna Marcenko - Non c’erano preti, né funerali, né lacrime. Mancavano le forze per piangere”.

Nei registri della polizia segreta si può leggere di più casi di cannibali finiti in prigione, giustiziati o linciati. Una singolare memorialista del Gulag ha raccontato un incontro nel 1935 con alcune donne detenute per cannibalismo nel campo di prigionia delle isole Solovki, nel mar Bianco. Olga Mane era una giovane polacca, arrestata mentre varcava il confine con l’URSS (voleva studiare medicina a Mosca) e condannata per spionaggio. Dopo un periodo nel campo, venne mandata a Muksalma, un'isola dell’arcipelago delle Solovki. Oppose resistenza, perché aveva sentito dire che vi erano detenute circa trecento “cannibali ucraine”. Ma quando infine le incontrò i suoi sentimenti mutarono: “Lo shock e l’orrore per le cannibali passarono in fretta; bastò vedere quelle sventurate ucraine scalze e seminude. Venivano tenute in vecchi edifici del monastero: molte avevano il ventre gonfio per la fame e, per la maggior parte, soffrivano di malattie mentali. Mi presi cura di loro, ascoltavo i loro ricordi e le loro confidenze. Mi raccontarono di come i loro figli fossero morti di fame e loro, vicine a morire di fame anch’esse, ne avessero cotti i cadaveri e li avessero ma ngiati. Era accaduto quando si trovavano in uno stato di shock causato dalla fame. Più tardi, quando erano giunte a capire cosa era successo, avevano perso la ragione”.

Nonostante il divieto di viaggiare e commerciare, i contadini ucraini aggiravano i blocchi per raggiungere città dove elemosinare qualcosa da mangiare. Chi aveva qualcosa da vendere si accovacciava con la merce esposta davanti a sé su un fazzoletto o su una sciarpa. Le merci andavano da una manciata di chiodi arrugginiti a una trapunta logora, o un boccale di latte acido venduto a cucchiaiate. Pantofole di canapa, e persino suole e tacchi strappati dagli stivali e sostituiti con bende cenciose, erano frequenti oggetti di scambio. Alcuni vecchi non avevano niente da vendere; cantavano ballate ucraine e di quando in quando venivano ricompensati con un copeco.

Per sopravvivere, la gente mangiava qualsiasi cosa, qualunque cibo andato a male che le brigate avevano trascurato. Cucinava rane, rospi e scoiattoli. Mangiava la corteccia delle querce, muschio e ghiande. Uccideva corvi, piccioni e passeri. Nadija Lucysyna avrebbe ricordato che “le rane non durarono a lungo. La gente le catturò tutte. Furono mangiati tutti i gatti, i piccioni e le rane; la gente mangiava di tutto”. Alcuni mescolavano foglie di acacia e patate marce e le infornavano per fare un surrogato delle tradizionali salsicce avvolte nel pane. L’amido contenuto nelle patate marce poteva essere estratto e fritto.

* * *

Anne Applebaum, giornalista e saggista statunitense naturalizzata polacca, collabora col Washington Post e insegna alla London School of Economics. Tra le sue pubblicazioni, “Gulag. Storia dei campi di concentramento sovietici”, che le è valso il premio Pulitzer nel 2004, “La cortina di ferro. La disfatta dell’Europa dell’Est” e “La grande carestia” (2019), da cui è tratto questo articolo.

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A cura della redazione

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