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QT n. 2, febbraio 2022 Seconda cover

Il processo visto dalla val di Cembra

Come gli atti d’accusa illuminano un sistema. E come oggi la società civile (non?) reagisce

Un’attenta lettura degli atti d’accusa, accompagnata dall’osservazione diretta dei fatti, non può non far risalire all’acquisto - alla fine del millennio - della cava di Camparta l’inizio delle cointeressenze incrociate fra grandi imprenditori “trentini” del porfido (nello specifico i cugini Odorizzi) e immigrati calabresi con ampia disponibilità di denaro di dubbia provenienza (i fratelli Battaglia). Cointeressenze consistite innanzitutto in una grande e opaca operazione finanziaria con l’acquisto per 12 miliardi di lire di una cava che ne poteva realmente valere la metà (vedi la ricostruzione di Qt in “I signori del porfido” del giugno 2019); ma che poi sono andate molto oltre, con ricadute pesanti proprio su condizioni di lavoro e struttura sociale operaia. All’interno della cava di Camparta venne infatti realizzata una complessa filiera di lavoro esternalizzato a ditte artigiane che si assumevano totalmente l’onere della gestione della manodopera, sgravando da ogni preoccupazione in merito la proprietà. Qui vennero realizzate condizioni di sfruttamento della manodopera extracomunitaria (macedoni, maghrebini e cinesi) mai viste prima nel settore e da qui ha preso le mosse la Balkan Porfidi e Costruzioni, presso la cui unità di Lases è avvenuto il pestaggio di Hu Xupai.

Visto il successo di quanto sperimentato nel laboratorio Camparta, nel ventennio successivo tale sistema di sfruttamento venne esteso pressoché all’intero settore del porfido, mettendo a disposizione dei concessionari personale e competenze (in primis capacità intimidatoria) in grado di gestirlo. Inutile aggiungere che per non incontrare ostacoli occorreva emarginare sistematicamente chi non era disposto a girarsi dall’altra parte, condizionare le scelte legislative in materia di cave da parte della Provincia (L.P. 7/2006 dell’assessore Benedetti e 1/2017 dell’assessore Olivi), controllare dall’interno le amministrazioni comunali e, non ultimo, ottenere il silenzioso assenso da parte delle organizzazioni sindacali. E’ in questo quadro d’insieme che va letto il pestaggio di Hu Xupai, la profonda irritazione destata in valle dalle iniziative intraprese dal Coordinamento Lavoro Porfido e l’assordante silenzio da parte dell’imprenditoria cembrana di fronte alle risultanze dell’operazione “Perfido”.

Le condizioni favorevoli all’insediamento ‘ndranghetista: propensione al malaffare e all’illegalità dell’imprenditoria autoctona.

Situazioni di illegalità erano già presenti, anzi in qualche maniera erano strutturali. Anzitutto sul fronte fiscale: negli anni 1982-86 gli accertamenti tributari evidenziarono come, su 8 aziende concessionarie controllate, l’accertato assommava a 3.444.874.000 di lire, mentre il dichiarato era pari a 1.208.718.000 lire, circa un terzo del reale, per cui si può tranquillamente ipotizzare che l’evasione annua relativa alle circa 120 aziende concessionarie non fosse inferiore a 33 milioni di lire.

Poi sul fronte politico-amministrativo: le ditte che erano riuscite ad accaparrarsi le concessioni nella prima metà degli anni Sessanta si trovarono nell’esigenza di conquistare e mantenere il controllo delle amministrazioni locali (Asuc e Comuni) per determinare i canoni di concessione; e non meno importante era l’esigenza di condizionare la stessa Provincia, la sua legislazione in materia di cave, e i controlli sul suo rispetto (ad esempio l’obbligo di asta pubblica per l’aggiudicazione delle concessioni non fu mai reso effettivo, permettendo la proroga di 9 anni in 9 anni di quelle in essere).

Infine sul fronte elettorale.

Verso la metà degli anni Ottanta la comunità si era ribellata al dominio dei cavatori-concessionari eleggendo un’amministrazione comunale, guidata da Vigilio Valentini, di tutt’altro segno. E lì iniziarono le intimidazioni, anche a chi scrive, le auto bruciate in piazza, le cariche esplosive. Azioni intimidatorie inusuali per questo territorio, che videro la luce in contemporanea con l’ingresso nelle attività economiche locali di certi personaggi e la stabile assunzione di pratiche di condizionamento e controllo del voto che hanno inquinato pesantemente e profondamente la vita democratica locale negli ultimi 25 anni.

L’analisi del procuratore aggiunto di Reggio Calabria dott. Paci, laddove ha evidenziato come la Calabria, regione d’origine di un’organizzazione mafiosa ricchissima come la ‘ndrangheta, sia ridotta ad un territorio povero mentre i capitali mafiosi trovano investimento nel nord Italia e nord Europa, negli Stati Uniti e in Australia, mi ha inevitabilmente suggerito un’analogia. Anche la zona del porfido, che negli anni Ottanta sembrava proiettata verso un definitivo e generale riscatto dalla povertà iniziato nel secondo dopoguerra, negli ultimi trent’anni è andata incontro ad un lento e inesorabile impoverimento generale. Tanto che la valle - meta negli anni scorsi di immigrazione poco qualificata, a basso costo e facilmente ricattabile dalla Macedonia del Nord, dal Maghreb e dalla Cina - vede ora i suoi giovani emigrare a causa dell’assenza in zona di posti di lavoro qualificati con trattamento, non solo economico, sufficientemente dignitoso. Questo dovuto all’instaurarsi di un’attività industriale primordiale, basata sullo sfruttamento della manodopera e sulla predazione sistematica della risorsa porfido.

Amministratori in conflitto d’interessi e istituzioni silenti: il muro dell’omertà.

Alla luce di quanto sopra si capisce perfettamente il silenzio, di fronte al processo, degli imprenditori del porfido. Analogamente non è un buon segnale la rinuncia da parte di Confindustria trentina a costituirsi parte civile. Ricordiamo come dalle intercettazioni risulti come alcuni degli imputati stessero mettendo in opera un sistema di pesanti intimidazioni nei confronti dei concorrenti in nuovi settori industriali, dai ponteggi alla logistica.

Di fronte a questi pericoli non sono certo sufficienti le dichiarazioni del presidente della Confindustria trentina Fausto Manzana (oltre che nell’intervista a QT del gennaio 2021, anche su L’Adige del 18 gennaio) che, pur definendo le infiltrazioni mafiose nel settore del porfido “un fatto gravissimo”, sostiene che “l’impegno per la legalità di Confindustria Trento non si misura sulle prese di posizione di principio” e quindi svicola rispetto alla costituzione di Parte Civile.

Quando poi rivendica testualmente “la nostra attenzione è stata, è, e sarà sempre massima” e sottolinea la necessità di “un’azione condotta nel quotidiano, in maniera costante”, nasconde la grave disattenzione che c’è stata fino ad ora: a suo tempo nell’affare Camparta, e più recentemente di fronte alla cordata di imprenditori trentini che ha gestito la Marmirolo Porfidi, ditta spolpata dal ‘ndranghetista Antonio Muto (e per questo condannato a cinque anni e mezzo di detenzione) e nella quale era amministratore anche il nostro Giuseppe Battaglia.

Ed è grave che ancora una volta l’onore della categoria venga caricato sulle spalle di Andrea Gottardi, il presidente della sezione autotrasporto, che per primo nel 2011 ebbe il coraggio di denunciare pubblicamente, anziché approfittare in silenzio, e oggi come allora sembra venir lasciato solo da chi predica la legalità ma la faccia in tribunale non la mette.

D’altra parte, anche la Provincia di Trento si è costituita in extremis e solo dopo che il presidente Fugatti è stato pungolato dalla stampa locale, ricordandogli che il sua collega Zaia in Veneto non aveva esitato a costituirsi nell’analogo processo “Taurus”. Così come il Comune di Lona-Lases, costituitosi con delibera del Commissario straordinario solo due giorni prima dell’apertura del processo, tanto da non poter nemmeno presentare una propria lista di testi e quindi facendo presagire scarsa volontà di dare un contributo fattivo all’accusa.

Ma non esiste solo il lato giudiziario: altrettanto gravi sono le disattenzioni sul piano politico. Di fronte a quanto rivelato dall’indagine “Perfido”, la Giunta provinciale non è intervenuta per far emergere cosa è avvenuto a Lona-Lases negli ultimi 25 anni con la presenza in Comune di alcuni degli attuali imputati per associazione mafiosa.

Le difficoltà amministrative segnalate dal neo sindaco Manuel Ferrari, che il 17 novembre 2020 (tre mesi dopo la sua elezione) chiedeva supporto alla Giunta provinciale al fine di affrontare “la grave situazione amministrativa riscontrata”, non possono essere disgiunte dal coinvolgimento per voto di scambio politico-mafioso del suo predecessore Roberto Dalmonego. Ma la Giunta provinciale ha semplicemente affidato a due tecnici un incarico di “consulenza e assistenza”. Nella loro relazione, la dott.ssa Morandini e l’arch. Polla hanno cercato di minimizzare l’impatto dell’inchiesta “Perfido”, affermando che essa avrebbe solo contribuito “ad appesantire il clima e rendere difficile trovare chi sia disposto ad operare sul territorio o per l’Amministrazione…” Essi tuttavia sottolineavano, nella relazione finale del maggio 2021, come “non vi siano in realtà le condizioni per garantire con continuità il corretto funzionamento e lo sviluppo di servizi adeguati…” e pertanto sia necessaria “la progettazione di una gestione associata o la fusione tra i diversi comuni contermini”. Quella fusione non a caso sabotata dall’allora sindaco Marco Casagranda, non senza l’ausilio di soggetti coinvolti nella predetta inchiesta. Nello specifico essi evidenziavano due questioni importanti, innanzitutto la difficoltà nella gestione delle cave derivante dalla sospensione unilaterale della convenzione Asuc-Comune effettuata dal sindaco Dalmonego e che il nuovo sindaco, all’epoca presidente Asuc, nulla ha fatto per ripristinare.

Questo ci pare sufficiente, viste anche le dimissioni dei consiglieri comunali a fine maggio 2021 e la mancata presentazione di liste alle elezioni indette dal commissario per ottobre, a giustificare la richiesta già avanzata in una interrogazione dal consigliere Alex Marini affinché la Giunta provinciale disponga gli opportuni accertamenti per arrivare a un commissariamento per infiltrazione mafiosa del Comune di Lona-Lases.

Il ruolo fondamentale della società civile.

Di fronte a tutto questo è più che mai necessaria una forte reazione da parte della società civile trentina che aiuti anche le comunità locali. Fondamentale in tal senso anche il segnale che potrà venire dal Palazzo di Giustizia, anche se la disponibilità a patteggiare da parte della pubblica accusa, non è un fatto incoraggiante.

Non va mai dimenticato che lo stato di soggezione di queste comunità e dei lavoratori è mantenuto e perpetuato proprio grazie a soggetti che, se verrà accordato il patteggiamento,, avranno la possibilità di riprendere a breve questo loro ruolo intimidatorio.