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QT n. 9, settembre 2021 Rubriche: Risiko

The day after

Afghanistan: le ragioni di un disastro e le prospettive future

La fine dell’avventura americana e dei paesi Nato in Afghanistan è giunta, per il grande pubblico che distrattamente seguiva la ormai ventennale vicenda, del tutto inaspettata. E ha il sapore di una “caduta degli dei” senza onore, di una fine ingloriosa.

I media si sono naturalmente concentrati sulla ritirata dell’esercito americano e poca attenzione è stata concessa ad altri attori, con parti secondarie, ma non meno responsabili degli USA nel disastro: la Gran Bretagna, l’Italia (che ha avuto 50 morti e centinaia di feriti), la Germania, l’Olanda (la Spagna prudentemente si era ritirata alcuni anni fa). L’Afghanistan in effetti ha già perso ormai lo spazio del primo titolo sui media, è una questione ormai in corso di archiviazione.

I media nostrani hanno lodato a più non posso la perfetta “operazione ritiro” organizzata dall’AMI (Aeronautica Militare Italiana) e sottolineato la grande generosità di un paese che ha portato in Italia anche 5.000 afghani oltre a un migliaio di propri soldati. Negli Stati Uniti, una stampa più libera e una opinione pubblica meno addormentata non si sono fatte abbindolare dai numeri ben più consistenti - circa 120.000 rimpatriati in America compresi i 5.000 soldati - nel “più grande ponte aereo della storia”. Infatti il discorso di Biden alla nazione con i suoi due ritornelli “ritirarsi era l’unica cosa da fare” e “la nostra missione è compiuta, abbiamo debellato l’ISIS e ucciso Bin Laden” ha convinto pochi. Molti Americani invece si sono posti la domanda più ovvia: se abbiamo debellato l’ISIS e ucciso Bin Laden ormai dieci anni fa, che ci siamo restati a fare nell’Afghanistan per altri dieci anni? Domanda che non ha facili risposte e che ha però scatenato l’ira di soldati e veterani, oltre che delle famiglie dei quasi 3.000 militari morti in guerra. In effetti all’indomani della fine di Osama bin Laden, la coalizione USA-NATO fu costretta a inventarsi un nuovo obbiettivo per giustificare la sua presenza in Afghanistan: la costruzione di una moderna democrazia, di un moderno stato di diritto dotato di strutture sociali efficienti: polizia, scuole, ospedali ecc., insomma una versione aggiornata della missione di “civilizzare” i popoli selvaggi che in altri tempi voleva giustificare le imprese coloniali classiche. Gli Americani lo chiamano “nation building”, ossia (ri)costruire una nazione, ignorando del tutto (o fingendo di ignorare) che l’Afghanistan – paese in cui fui alcune volte negli ormai lontani anni ’70 – era ed è tuttora uno stato a base etnico-tribale con le sue regole e i suoi codici anche non scritti. Uno stato che, di solito, funziona benissimo perché la mentalità tribale assegna alla compagine (il clan, la tribù) e ai singoli individui diritti e doveri precisi che tutti conoscono a menadito anche se analfabeti. Una società arcaica, certamente, ma a suo modo ordinata finché… finché non sono arrivati i russi negli anni ‘80 con il pretesto di proteggere il locale traballante governo filo-comunista; finché poi, usciti i Russi sonoramente battuti dai mujahidin negli anni ‘80 (con l’aiuto USA), non sono arrivati gli Americani nel 2001, col pretesto di dare la caccia a Osama bin Laden che lì si nascondeva dopo l’attentato alle Due Torri gemelle. La società afghana ne è stata sconvolta sin dalle fondamenta. Ma, in trent’anni, l’Afghanistan ha saputo mettere in ginocchio i due imperi del nostro tempo, il russo e l’americano, confermando la sua fama di “tomba dei grandi imperi”. Sì, perché la débacle americana di questo 2021 è solo l’ultima di una serie nutrita, in cui i montanari-guerrieri dell’Afghanistan si sono ogni volta rivelati un nemico imbattibile che, come un bravo pugile che sa incassare anche per molti round, alla fine però vince sempre il match. Così è accaduto con la Russia nel 1989, così era accaduto con l’impero britannico nell’ 800, allorché gli Inglesi tentarono di conquistare l’Afghanistan nel cosiddetto Grande Gioco che li opponeva all’impero zarista. Gli andò male, malissimo: fior di battaglioni di soldati di Sua Maestà in elegante giubba rossa furono sterminati e orribilmente straziati tra le gole dell’Afghanistan. E, risalendo ancora indietro, dopo la metà del ‘700, Ahmad Shah Durrani, il fondatore del moderno Afghanistan nel 1747, razziò più volte Delhi, la capitale dell’Impero Moghul, indebolendolo gravemente al punto che di lì a poco sarebbe diventato un protettorato britannico. In precedenza, verso il 1720, bande di incursori afghani erano scese sull’altopiano dell’Iran facendo crollare l’Impero Safavide che durava dagli inizi del ‘500.

Ma né gli Americani, né prima di loro i Russi hanno appreso la lezione della storia. Possiamo essere quasi certi invece che la Cina l’ha appresa benissimo perché con i nuovi padroni Talebani dell’Afghanistan ha già impostato un dialogo basato solo sugli affari e sulla costruenda nuova “Via della Seta” la quale per le strade afghane deve per forza transitare.

Gli altri vincitori

Ma i Talebani che oggi orgogliosamente celebrano la loro “indipendenza” sono davvero i soli vincitori di questa lunga sciagurata guerra? Già si intravedono almeno due o tre paesi che si fregano le mani: il Pakistan e la Cina innanzitutto. Il Pakistan attraverso la potente centrale dell’ISI (i servizi segreti dell’esercito) ha creato vent’anni fa e sostenuto l’esercito talebano e gli ha fatto spesso da retrovia. Si dice che, senza il consenso pakistano, i Talebani non muovano un dito. E la predetta Via della Seta, ha trovato un primo sbocco ai “mari caldi” proprio nel porto pakistano di Gwadar, ricostruito grazie ai 62 miliardi di dollari del progetto China-Pakistan Economic Corridor (CPEC). La Cina con l’uscita di scena degli USA ha ormai via libera per la nuova Via della Seta fino all’Iran, dove pure si sta costruendo un nuovo gigantesco porto sulla costa iraniana nell’Oceano Indiano.

Ritiro dall’Afghanistan degli Americani

L’Iran è tra i paesi che possono trarre un bilancio tutto sommato positivo della fine della guerra afghana: fino al mese scorso aveva l’esercito USA alle porte sia a ovest in Iraq sia a est in Afghanistan. Ora il confine afghano è liberato dalla presenza americana, e quanto all’Iraq, si parla ormai di ritiro dei rimanenti 2.500 militari americani entro fine anno. Ma c’è un problema: l’Iran è sciita, i Talebani sono sunniti fondamentalisti, e anni fa essi uccisero una ventina di funzionari del personale del consolato iraniano di Mazar-e Sharif (nord Afghanistan); non solo, i Talebani sono noti per i frequenti atti di aggressione e bullismo contro la minoranza degli Hazara, sciita, che abita il centro dell’Afghanistan e che l’Iran tenta di proteggere. Su queste vecchie ruggini l’Iran ha però lavorato molto, e oggi, per esempio, il paese degli ayatollah ha mantenuto aperte le sedi diplomatiche a Kabul e Herat e ha riaperto i confini esportando quel petrolio di cui gli Afghani hanno gran necessità. Del resto i Talebani ci tengono a un buon rapporto con l’Iran anche nell’ottica di svincolarsi dalla troppo stretta tutela dei loro protettori pakistani.

Altri paesi, come il Qatar e la Turchia, cercano, l’uno con la sua potenza finanziaria e l’altro con le sue industrie, di inserirsi nel business della ricostruzione. Insomma, è una gara a riempire il grande vuoto del day after: in geopolitica come in fisica il vuoto non è tollerato: se una potenza latita o fugge, altre si fanno avanti.

Ritiro dall’Afghanistan dei Russi nel 1998

Una domanda che molti si sono posti riguarda l’apparente impotenza di quella che è tuttora la prima potenza militare al mondo, umiliata da un esercito straccione di militanti in sandali e turbanti. Qualcuno ha detto: “L’America ha il denaro e le armi, noi afghani abbiamo il tempo”. Ecco, il fattore tempo diventa decisivo in un paese occidentale dove la pressione dell’opinione pubblica, delle opposizioni, della libera stampa, dei movimenti pacifisti che battono e ribattono sul dispendio insopportabile in vite e denari per guerre lontane, alla fine, fa la differenza. Gli Afghani, un popolo che non ha conosciuto pace negli ultimi quarant’anni, questo problema non ce l’hanno, una opinione pubblica, se esiste, conta poco, contano solo i clan e i capi-clan. E’ chiaro che gli Stati Uniti hanno una potenza che, sulla carta, potrebbe distruggere l’Afghanistan, ma il fronte morale interno, un po’ come era accaduto in Vietnam mezzo secolo fa, non ha una tenuta illimitata. In realtà gli USA, grazie ai droni e ad altre sofisticate armi elettroniche, si sono accorti da tempo che possono colpire ovunque, senza la necessità di mandare a morire i fanti sul campo: stare in Afghanistan ormai non serve più. Per altro, occorre ricordare che i Talebani hanno una ideologia religiosa del martirio che giustifica e mitizza la morte del combattente contro l’invasore straniero e per giunta “infedele”; l’America e l’Europa, con la loro più prosaica ideologia del calcolo costi-benefici, entrano in crisi ogni volta che vedono rimpatriare le bare dei propri militari e si chiedono: perché, ancora, la guerra? Che ci guadagniamo?

Un’ultima questione riguarda la difficile, certamente sofferta decisione del ritiro americano presa in solitudine da Biden, che ha scontentato i partner europei, tenuti all’oscuro sino all’ultimo, ma soprattutto il cosiddetto Deep State (lo “Stato profondo”), quello del complesso militare-industriale, dei servizi segreti e dell’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee), la potente lobby filo-israeliana che, si dice, condizioni i media, il grande capitale e persino la scelta di ministri e parlamentari americani. Qualcuno ha speculato sull’attacco concentrico dei media a Biden subito dopo la strage all’aeroporto di Kabul, ipotizzando che l’obiettivo fosse quello di costringerlo alle dimissioni e dare il via libera così alla vice presidente Kamala Harris, che sarebbe più in sintonia con i desiderata del Deep State. Speculazioni soltanto? Chi può saperlo? Comunque, ci sembra, il vecchio Joe Biden – biasimato perché si appisola di fronte al premier israeliano Naftali Bennett venuto a Washington per perorare una ennesima volta l’idea di un attacco preventivo al “perfido” Iran - per una volta ha saputo tenere la barra dritta e ha saggiamente deciso il ritiro dall’Afghanistan.