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‘Ndrangheta in Trentino: serve una riflessione politica

Elio Bonfanti, Paolo Offer, Antonella Valer
Conferenza stampa dell'operazione "Perfido"

La reazione dei politici alla vicenda ci appare gattopardesca. Fugatti, scordandosi che fu il senatore leghista Boso a guidare la protesta che portò a togliere i sigilli del sequestro della Magistratura delle cubettatrici nel 1993, dice che bisogna stare attenti alle infiltrazioni criminali; Ugo Rossi se la cava invitando a non generalizzare e dichiara che il “Trentino non è l’Aspromonte”; Dellai nega che quanto messo in evidenza da questa inchiesta abbia inciso nel tessuto della Autonomia: “L’impressione - dice - è che questa penetrazione della ‘ndrangheta ci sia sicuramente stata, ma che il sistema politico della autonomia abbia dimostrato di essere indisponibile a farsi coinvolgere”.

Eppure sono oltre 20 gli esposti alla Magistratura fatti dagli anni ‘80 in poi dal Comitato Lavoratori del porfido e archiviati dalla Magistratura. Eppure Questotrentino, da due anni almeno, denuncia le infiltrazioni ‘ndranghetiste. Ed ancora il pestaggio di un lavoratore cinese ad opera degli ‘ndranghetisti, e l’esito di alcune denunce da parte di amministratori delle ASUC, mettono in evidenza che i carabinieri di Albiano e Baselga di Pinè hanno dimostrato una “colpevole indifferenza” verso l’attività della Locale di ‘ndrangheta. Infine, della commistione fra amministratori pubblici e concessionari di cave si parla da almeno 30 anni. Per capire che le cose “non andavano” gli elementi c’erano tutti.

La verità è che la ‘ndrangheta ha diretto un processo di trasformazione dell’estrattivo fino a spolparlo con la connivenza dei boss del territorio, dei concessionari, delle associazioni di categoria e, nel contempo, ha costruito un’egemonia nei territori fino a determinarne i sindaci e gli amministratori. Date queste premesse, due ci sembrano i temi su cui riflettere e su cui cercare di ricostruire un punto di vista diverso.

Il lavoro. L’inchiesta della Magistratura mostra come l’inserimento della Locale di ‘ndrangheta nell’attività economica principale della valle di Cembra ha inizio dalla metà degli anni ‘80. A partire da quegli anni il settore del porfido fa un salto di qualità, presentandosi in conflitto con l’ambiente. Il paesaggio mostra le sue prime pesanti devastazioni. La strada della valle è contornata dallo scarto della lavorazioni, la montagna mostra i morsi delle lavorazioni intensive. Per aumentare i profitti i concessionari non realizzano le messe in pristino, anche quando previste, usano solo il materiale migliore e buttano in discarica circa il 70% dell’estratto, perché lavorarlo non conviene, visti i costi esigui delle concessioni.

Il modello produttivo insomma entra in crisi e le popolazioni cominciano a rivendicare un diverso utilizzo della materia prima, una maggiore onerosità delle concessioni e condizioni di tutela del lavoro e delle comunità, sottoposte al pesante inquinamento, dato sia dalle lavorazioni che dall’incessante transito degli autotreni.

I tentativi di una diversa regolamentazione della materia si scontrano da una parte con un padronato refrattario ad assumersi maggiori oneri e con una Provincia che sta dalla parte dei concessionari. Il cottimo puro continua ad essere il modo prevalente di produzione. Auto-sfruttamento (nel caso delle ditte individuali) e super sfruttamento, accanto al disprezzo per la salute sul lavoro, sono le cifre di quelle produzioni.

Inizia un primo deficit della politica: solo qualche pezzo della sinistra e del sindacato rivendica mutazioni radicali come l’estromissione dei concessionari dalle pubbliche amministrazioni e revisioni delle concessioni che impongano oneri maggiori per la coltivazione delle cave, le messe in pristino dei luoghi, la riduzione degli scarti, il miglioramento delle condizioni lavorative. All’opposto, la Provincia non contrasta la delocalizzazione delle produzioni. Gli Odorizzi, gli Stenico, i Paoli, i Casagranda, ecc. acquistano enormi aree in Patagonia e cominciano a produrre porfido argentino, con costi inesistenti rispetto a quelli delle cave in valle di Cembra. La produzione in Patagonia beneficia, oltre che dell’assenza di norme ambientali, anche di legislazioni relative al lavoro. E i profitti vanno alle stelle. Contemporaneamente le aziende trentine modificano il loro rapporto col lavoro e lo sfruttamento delle cave. Si liberano dei dipendenti e gestiscono in forma di subappalto le concessioni.

A far fare un salto di qualità è il provvedimento che nel 1993 la Magistratura trentina emette dichiarando “non a norma” (insalubri per i lavoratori costretti a lavorare rischiando la sordità oltre che l’inquinamento dalle polveri) le cubettatrici e ponendole sotto sequestro. Ma questo, mancando un ruolo positivo della politica, anziché favorire uno sfruttamento più razionale delle risorse e un salto tecnologico-produttivo che tuteli i lavoratori, accelera il processo in corso.

In poco tempo i 500/600 lavoratori del porfido, incentivati dalle imprese concessionarie, si trasformano in lavoratori autonomi con partita IVA. I concessionari vendono loro le cubettatrici fuorilegge e così cessa qualsiasi protesta circa la rumorosità e i danni delle lavorazioni.

Si tratta di un peggioramento delle condizioni di lavoro: il divenire lavoratori autonomi cancella i diritti alla Cassa Integrazione, costringe all’aumento dei ritmi (anche per pagare le cubettatrici), obbliga a lavorare anche sotto zero.

Il lavoro si etnicizza. Da una iniziale, debole presenza di immigrati il settore diventa sempre più luogo di lavoro di manodopera straniera, mentre gli autoctoni ricoprono ruoli di direzione. Gli immigrati, apparentemente emancipati dal lavoro dipendente, in realtà operano per gli stessi concessionari di prima, hanno un unico committente (il concessionario della cava dove operano) e per evitare controlli spesso vengono costretti a emettere fatture false per occultare il disegno in cui sono costretti a operare.

Il salto di qualità finale avviene negli ultimi 10/15 anni con una ulteriore etnicizzazione delle produzioni attraverso la comparsa di 2/300 lavoratori cinesi, costretti a lavorare in condizioni di lavoro servile, con stipendi inesistenti (4/500 euro al mese), spesso tenuti per mesi senza retribuzione, maltrattati, minacciati e in molti casi riempiti di botte. Come abbiamo visto, la Locale di ‘ndrangheta entra nel settore e ne gestisce le mutazioni. I Battaglia arrivano in Trentino nella seconda metà degli anni ‘80 e dapprima sono una ditta artigiana che pian piano diventa concessionaria, probabilmente utilizzando i soldi del riciclaggio provenienti dalle illecite attività calabresi del clan.

Cava di porfido

Il Trentino è fra le provincie più ricche d’Europa e questo è il modo come viene gestito l’estrattivo: una ricchezza che ha le sembianze del lavoro servile, dello sfruttamento, del disprezzo per le persone.

La prima conseguenza politica di questa inchiesta dovrebbe essere l’avvio di una discussione pubblica sull’estrattivo, accompagnata dall’azzeramento delle concessioni e un loro rinnovo, escludendo dalle gare le imprese coinvolte.

Il presupposto di ogni nuova concessione dev’essere l’incompatibilità fra amministratore pubblico e concessionario, fino al secondo grado di parentela. A ciò va aggiunta la creazione di una Autorità di distretto che sovrintenda alle concessioni, controlli la attività, imponga le messe in pristino. Una Autorità dove trovino posto anche i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali, che tuteli la qualità e la regolarità del lavoro. Ma è forte l’impressione che da parte dei poteri provinciali non ci sia nessuna volontà di affrontare l’aspetto politico di questa inchiesta, che nessuna modifica strutturale avverrà nel settore, che tutto funzionerà come prima.

Le infiltrazioni mafiose. Dellai parla di una Autonomia trentina “assolutamente indisponibile a farsi coinvolgere”. Siamo in disaccordo, non solo perché alcuni fatti (evidenti nei documenti del tribunale pubblicati da QT) lo smentiscono, ma anche sull’opportunità politica e culturale di minimizzare l’accaduto.

Dai dati emerge un coinvolgimento significativo e sistematico con gli indagati di rappresentanti di istituzioni che è difficile definire “errori di opportunità”. La comunanza della Locale con alcuni personaggi ai vertici della magistratura trentina non può non turbare. Il fatto che questi partecipino a una cena dopo che a chi la organizzava era stato notificato il prolungamento delle indagini preliminari per il reato di concorso e appartenenza ad associazione mafiosa è la dimostrazione di un rapporto tutt’altro che occasionale, non derubricabile come semplice “inopportunità”. Così come l’ errore di inviare la notifica di continuazione delle indagini a una parte degli inquisiti va chiarito, visto che di fatto azzoppa l’inchiesta.

Nell’inchiesta inoltre il commercio di voti e il ruolo che giocano le istituzioni nella gestione degli affari mafiosi è ben presente e riguarda dimensioni amministrative e politiche coinvolgendo eletti di diversi partiti.

Le istituzioni dell’Autonomia sono state infiltrate. L’immagine del Trentino che emerge è quella di una società disattenta e assopita, che ha affievolito la sua dimensione solidale.

Per alcuni anni una parte importante del territorio è stata nelle mani della criminalità organizzata che ha deciso gli amministratori, imposto i concessionari, controllato la vita sociale, imposto forme di lavoro servile, e l’Autonomia non ha visto, o peggio ha assecondato. Per un verso perché le istituzioni hanno omesso di farlo, poi perché quanto accadeva era scambiato per il naturale sviluppo del settore. Infine perché il controllo ‘ndranghetista ha determintato l’assenza in quei territori di qualsiasi democrazia, con le elezioni ridotte alla corsa spesso di liste uniche controllate dai concessionari di cava.

Questo è successo in tutta l’area del porfido, a Lases come ad Albiano, a Fornace, a Segonzano, a Sover, dove anche chi era in disaccordo ha spesso dovuto scegliere il disimpegno dalle elezioni comunali e limitarsi alla denuncia pubblica.

Ha ragione Walter Ferrari a dire che non si è voluto vedere e a citare, in un recente articolo su QT, il paradossale esito dell’indagine effettuata nell’ambito del Piano Triennale per la prevenzione della corruzione della Provincia, come esempio dell’assoluta assenza di controlli, fino al limite della connivenza. Nel piano in oggetto è scritto: “Il Trentino è una provincia sana, nella quale è possibile operare senza problemi, in un contesto economico ed istituzionale onesto” con “una percezione ridotta di presenza di criminalità organizzata e corruzione” e “priva di una esperienza diretta” al riguardo. Parole che testimoniano l’opacità del controllo pubblico su quanto accadeva. Negare o minimizzare, come si è fatto in passato, non solo non aiuta a trovare le soluzioni, ma evita anche di introdurre quei correttivi che rendano più difficili eventuali altri tentativi di infiltrazione.

Centrale diventa in questo senso il settore del Credito e politiche di sostegno alle piccole imprese che possono essere il primo terreno di infiltrazione mafiosa, ed anche su questo inesistenti sono le iniziative della Giunta Provinciale.

Di visione, di capacità strategica c’è bisogno, di un progetto che utilizzi i finanziamenti del Recovery Fund per una riconversione ecologica anche della nostra economia. E si tratta di un progetto che non ha prospettive se non si collega alla rinascita di una dialettica politica che rilanci il ruolo delle istituzioni e le liberi dall’abbraccio asfissiante di cui la inchiesta Perfido è testimonianza.

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