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“L’Europa non c’è”

Un'opera incompiuta e rimarrà tale se gli Stati non rinunceranno al loro protagonismo e con forze politiche capaci di guidare i popoli verso questo obiettivo

Maurizio Agostini

In famiglia si racconta di una zia che frequentava le scuole elementari all’inizio degli anni ‘30 del ‘900. Quando arrivò in classe la visita annuale di ispezione del direttore, egli fece alcune domande per tastare il polso della preparazione degli alunni. Ebbene questa zia fu chiamata davanti alla grande carta geografica e le fu chiesto di indicare dov’era l’Italia. Si narra che la zia, dopo una lunga pausa, si girò verso il direttore e rispose: “Signor direttore, l’Italia non c’è”. Commentando l’episodio si è sempre scherzato sul fatto che la risposta di quella zia-bambina potesse non essere indice di scarsa preparazione in geografia, bensì di una straordinaria consapevolezza sociale, politica e civile sullo stato della nostra nazione.

In questi giorni pensavo che, davanti alla cartina d’Europa, la zia, con altrettanta sottile ironia, avrebbe potuto rispondere: “Signor direttore, l’Europa non c’è”. E non si tratta solo di un commento, certo troppo sbrigativo e superficiale, all’attuale stallo del confronto sulle misure da prendere per far fronte all’emergenza provocata dalla pandemia. Si tratta di inquadrare l’impasse attuale nella storia della prospettiva europea, che da troppi anni ha smesso di muovere passi significativi verso la propria definizione e il proprio rafforzamento. Rimanendo così prigioniera di meccanismi farraginosi di funzionamento, della difficoltà di raggiungere intese che richiedono difficilissime unanimità, della prevalenza degli interessi nazionali dei singoli stati su quelli comunitari.

Nel 2004 a Roma, in una cerimonia trasmessa in eurovisione, i 25 capi di stato o di governo dei Paesi aderenti firmarono il trattato che adottava una Costituzione europea, nella quale venivano revisionati e portati a coerenza i trattati fondativi approvati fino ad allora. Si trattava di un punto di arrivo che, dopo l’avvio della politica della moneta unica, doveva consolidare l’Unione e del punto di partenza per omogeneizzare e dare corpo a uno stare insieme che, sulla base della rappresentanza democratica, doveva definire in modo costruttivo competenze e reciproci rapporti tra istituzioni nazionali e comunitarie. Romano Prodi, da presidente della Commissione europea, fu uno dei protagonisti più convinti di quella stagione.

Da quel momento avrebbe dovuto iniziare la fase più politica della costruzione europea ed era chiaro che sarebbe stato necessario individuare ambiti che dovevano diventare di competenza europea - ad esempio la difesa e la politica estera - e altri che avrebbero dovuto, con la gradualità necessaria, convergere a unità. Penso al campo dei diritti civili e della tutela della democrazia, al welfare e alla previdenza, alle politiche fiscali, e così via. Purtroppo negli anni successivi due referendum, in Francia e in Olanda, bocciarono quel trattato e da allora il cammino verso gli Stati uniti d’Europa ha subìto un arresto.

L’Europa ha un Parlamento ma non ha un governo in grado di operare in modo davvero autonomo e gli interessi (o per meglio dire gli equilibri politici) nazionali ne condizionano pesantemente ogni orientamento e decisione. Un’immagine evidente di questo deficit di autorevolezza lo si ha nel campo delle relazioni internazionali, dove constatiamo che ogni Stato non rinuncia a coltivare relazioni separate con gli interlocutori extraeuropei, facendo andare a nozze chi ha tutto l’interesse di lasciare gli europei divisi, piccoli e impotenti.

Nel frattempo è cambiato anche il vento, e il sentimento di appartenenza europea ha perso progressivamente punti, a fronte della rinascita, peraltro piena di incoerenze e contraddizioni, dei nazionalismi e delle logiche del “prima noi”. Così anche nella temperie attuale, in cui si invocano sacrosante esigenze di solidarietà e di superamento delle divisioni, i richiami nazionali hanno la meglio e i compromessi che si raggiungeranno paiono sempre al ribasso.

Voglio dire che non se ne verrà fuori se non sapremo riprendere la strada della costruzione dell’Europa politica, con la necessità di passi indietro degli stati nazionali, capaci di trovare un protagonismo nuovo fatto anche di trasferimento di competenze e di quote di sovranità. Certo, le classi politiche oggi non sembrano disposte né capaci di guidare i popoli europei verso questo obiettivo, anche se dovrebbe bastare la forza della ragione e la capacità di guardare più avanti rispetto alle continue scadenze elettorali, per convincersi che altre strade non ci sono per affrontare le sfide e gli appuntamenti storici che abbiamo davanti.

Il Trattato europeo firmato a Roma nel 2004 richiamava tra l’altro l’importanza del ruolo delle regioni e delle città europee nella costruzione dell’Europa unita. Mi chiedo se non potrebbe venire da questi livelli locali di rappresentanza democratica una spinta a riaprire il discorso e riprendere il cammino. In particolare la nostra Regione, dotata di speciale autonomia e abituata a coltivare sguardi e relazioni che non si fermano ai confini nazionali, potrebbe essere uno strumento importante per provare ad uscire dallo stallo in cui l’Europa si trova. È vero, se mi guardo intorno vedo buio, ma è proprio in questi momenti che bisogna provare ad accendere qualche luce per cercare di ritrovare l’Europa, non solo sulla carta geografica.

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