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Sangue tedesco e Gastarbeiter

La condizione dei migranti in Germania: un po’ migliore che in Italia, ma non più di tanto. Da "Una Città", mensile di Forlì.

Holgher Förster. A cura di Simone Belci

Ci sono due grandi gruppi di persone che vengono in Germania: cittadini di altri Paesi dell’Unione europea che si trasferiscono per motivi di lavoro; e poi i richiedenti asilo, che dal 2015 sono sempre più numerosi: rifugiati provenienti dal Medio Oriente, ma anche dall’Africa. In questo momento, per esempio, vengono in molti dall’Eritrea e dal Sud Sudan. Nel 2017 sono state inoltrate 222.700 richieste d’asilo, mentre l’anno precedente, prima della chiusura della rotta balcanica, le domande erano state 745.500.

I residenti con retroterra immigratorio sono invece più di 19 milioni, ma per comprendere questo dato occorre fare riferimento alla storia dell’immigrazione almeno a partire dal secondo dopoguerra. Già allora la Germania Ovest fu interessata dall’afflusso di un gran numero di rifugiati provenienti dai territori dell’Europa orientale precedentemente occupati dai nazisti. Parliamo di movimenti di popolazione molto più consistenti di quelli attuali, eppure anche nel panorama desolato di quegli anni fu possibile farvi fronte.

Con gli anni ‘60 e ‘70 si apre una nuova fase, caratterizzata dall’immigrazione di forza lavoro. Sono i cosiddetti Gastarbeiter, provenienti da Italia, Turchia, Spagna, Jugoslavia, Nordafrica. Questa fase termina nel 1973, quando il governo chiude i canali d’accesso per la manodopera proveniente dall’estero. Già allora c’era chi voleva impedire i ricongiungimenti familiari, perché, come si sente ripetere, “la Germania non è una terra d’immigrazione”. Ovviamente la storia aveva già dimostrato da un pezzo il contrario, ma non si voleva prenderne atto. E ci vollero decenni prima che venisse approvata una legge sull’immigrazione. Così, per un lungo lasso di tempo, il Paese è rimasto privo delle infrastrutture giuridiche necessarie per gestire il fenomeno. C’erano però leggi sugli stranieri e che regolamentavano il diritto di asilo, ma in modo restrittivo. Un’ulteriore stretta venne data nel 1992, quando la Germania da poco riunificata dovette affrontare l’afflusso di profughi dalla Palestina e soprattutto dall’ex-Jugoslavia. Fu una svolta esiziale: per la prima volta il diritto d’asilo venne limitato a chi arrivava direttamente da un Paese in guerra. E correva comunque il rischio di venir bloccato al confine. Anche oggi, come noto, i richiedenti asilo che raggiungono prima un altro Paese dell’Unione perdono il diritto di inoltrare la loro richiesta in Germania.

Si trattò di uno strappo gravissimo, perché la nostra storia avrebbe dovuto responsabilizzarci rispetto alla sorte dei perseguitati che, costretti a fuggire, non trovano nessuno disposto ad accoglierli. Anche quando c’erano i nazisti, navi ricolme di fuggitivi erano costrette a vagare per i mari alla ricerca disperata di un approdo sicuro. A quanto pare non abbiamo imparato la lezione.

Ius sanguinis o ius soli?

Nel 1913 venne emanata una legge secondo cui era da considerarsi cittadino tedesco soltanto chi aveva sangue tedesco. Questo riferimento allo ius sanguinis ha influenzato la nostra concezione di cittadinanza. Dopo il 1991 molti vennero in Germania dai Paesi dell’ex-URSS, per sfuggire al disastro economico. Tra loro c’erano i discendenti dei coloni tedeschi insediatisi nel basso Volga 300 anni prima, su invito di Caterina II. Poiché avevano sangue “tedesco” venne concessa loro la cittadinanza con facilità, dopo che per tre secoli non avevano avuto nulla a che fare con la Germania. Molto più facilmente che ai figli e nipoti dei Gastarbeiter venuti negli anni ‘50 e ‘60, che qui ci erano nati.

Molti cominciarono allora a richiedere una nuova legge sulla cittadinanza. I cristiano-democratici al governo sostenevano che la priorità non era adattare i canali di accesso alla cittadinanza in una società profondamente cambiata, bensì difendere la Leitkultur (cultura dominante) tedesca da questo mutamento: se qualcuno viene qui deve fare propri i nostri usi e costumi, i nostri valori e anche i nostri principi religiosi. Solo a chi avesse fatto un tale percorso, imparato il tedesco e contribuito al benessere economico del Paese, si sarebbe potuta conferire la cittadinanza. A questa visione si contrapponeva quella di una parte della sinistra, secondo cui integrare delle persone significa metterle in condizione di contribuire alla vita sociale e politica, di co-definire le regole di convivenza. Grazie a questi impulsi nel 2005, dopo che i verdi e i socialdemocratici hanno sostituito i cristiano-democratici al governo, si arriva finalmente a una legge sull’immigrazione che si propone di regolamentare, ma anche di limitare l’immigrazione.

Chi risiede qui da almeno 8 anni ed è in grado di mantenere se stesso e la famiglia può richiedere la cittadinanza. Chi dimostri di essersi integrato socialmente ed economicamente la ottiene previo il superamento di un test che certifica la comprensione del nostro sistema politico. Una disposizione sensata, ma per come il test è concepito, anche molti tedeschi verrebbero bocciati. Inoltre il processo di naturalizzazione comporta dei costi non indifferenti.

In seguito all’entrata in vigore della legge scoppiò un dibattito sul tema della doppia cittadinanza. I conservatori battevano sul chiodo del “perché viene concessa ad altri la doppia cittadinanza, quando noi tedeschi ne abbiamo una sola?”. Tra loro suscitò scandalo la scoperta che alcune persone originarie della Turchia, che avevano ottenuto la cittadinanza tedesca, avessero ripreso anche quella turca. Spesso erano ex-Gastarbeiter che avevano lavorato in Germania per decenni senza guadagnare molto e che, prossimi alla pensione, avevano cercato la soluzione migliore per amministrare le modeste proprietà che avevano all’estero.

Oggi comunque le domande di naturalizzazione sono in calo. Forse perché gli immigrati si sono resi conto che prendere la cittadinanza tedesca non basta per sfuggire alla discriminazione.

Lo si vede, per esempio, sul mercato immobiliare: i cittadini con un cognome straniero hanno enormi difficoltà a trovar casa. Anche l’attuale legge anti-discriminazione è spesso inefficace. A Berlino il governo locale sta lavorando a una legge per turare queste falle, regolamentando il mercato del lavoro e quello immobiliare e sanzionando il comportamento discriminatorio di imprese e istituzioni.

Faccio un esempio: molti giovani originari della Turchia che hanno finito l’università qui, che parlano il tedesco perfettamente, si sono socializzati e si riconoscono in questo Paese, hanno incontrato molte difficoltà nella ricerca di un lavoro adatto alle loro qualifiche. È frustrante ritrovarsi a fare il tassista dopo anni di studio. Così molti si sono trasferiti in Turchia.

L’integrazione difficile

Quando giunsero i Gastarbeiter si credette che, un volta che non ne avessimo più avuto bisogno, se ne sarebbero tornati da dove erano venuti. Era una sciocchezza: queste persone hanno cercato di far venire le loro famiglie e, in un modo o nell’altro, ci sono riuscite. Come si integrano i figli degli immigrati nelle scuole? Il nostro sistema scolastico è adatto ad accogliere persone di un’altra madrelingua? Che approccio abbiamo nei confronti delle altre lingue, consideriamo il plurilinguismo un potenziale o costringiamo i ragazzi a dimenticare la loro madrelingua?

Nell’ambito delle politiche di integrazione questi nodi non sono stati affrontati, per anni; solo oggi si comincia a pensare a queste problematiche nelle scuole e anche negli asili nido, che finalmente vengono concepiti come parte integrante del percorso formativo.

Se ci si aspetta che queste persone si impegnino sul piano politico, che diano un contributo a questo Paese, li si deve mettere in grado di farlo. Invece nei principali partiti politici gli immigrati sono rappresentati pochissimo; addirittura, lo statuto della CDU non permette agli stranieri di iscriversi. Inoltre coloro che non sono cittadini tedeschi non possono votare, né candidarsi alle elezioni, con l’eccezione dei cittadini europei alle comunali.

Nonostante tutto, credo però che ci stiamo muovendo verso una concezione di cittadinanza ispirata allo ius soli. Già l’attuale legge conferisce automaticamente la cittadinanza ai nati in Germania da un genitore che vi risieda da almeno otto anni e disponga di un permesso di soggiorno illimitato al momento della nascita. In passato a questi soggetti veniva chiesto di decidere, arrivati alla maggiore età, se volevano mantenere la cittadinanza tedesca o assumere quella dei genitori, ma dal 2014 viene concessa sempre più spesso la doppia cittadinanza. È un’evoluzione logica, se pensiamo che presto o tardi gran parte delle persone avrà un passato immigratorio. A Berlino questo vale già oggi per il 48% dei minorenni residenti. Ma per molti non è una tendenza di cui prendere atto, ma una deriva da arginare.

Il problema è che il dibattito viene condotto sull’onda delle emozioni o per calcolo politico. Anziché discutere su come dovrà essere la società in cui vogliamo vivere, siamo impantanati nella contrapposizione tra la presunta “nostra” cultura e quella degli altri. La crisi economica ha complicato ulteriormente le cose: molte famiglie si sono impoverite e quando cercano dei responsabili per i loro problemi i populisti hanno gioco facile ad additare i rifugiati e a dire: “Dobbiamo dare sostegno alla comunità nazionale e non a questi fondamentalisti, se ne tornino da dove sono venuti!”.

Si avverte la mancanza di una sinistra capace di restituire complessità al discorso, che denunci il fatto che in Germania l’1% della popolazione detiene più di un terzo della ricchezza. E invece scoppia una guerra tra poveri e a trarne profitto è chi sfrutta la disponibilità degli stranieri a lavorare a condizioni inaccettabili per un tedesco. E ciò non riguarda solo i richiedenti asilo: dopo l’ingresso della Romania nell’Unione, per esempio, sono giunti in Germania molti muratori. Poiché nessuno offriva loro un contratto, si sono presentati come lavoratori autonomi e questo ha avuto un impatto sui salari del settore. Servirsi del loro lavoro è vantaggioso, perché non si pagano contributi, né ci si deve preoccupare della loro disoccupazione: quando hanno finito, li si manda via. Fenomeni simili sono all’ordine del giorno anche in agricoltura, dove la disponibilità di manodopera a basso costo esercita una forte pressione al ribasso sui salari, oltre a rallentare la modernizzazione del settore. E in un contesto come questo, in cui gli immigrati vengono percepiti come concorrenti, è inevitabile che si crei del risentimento. Per questo serve dare delle risposte ai problemi della gente.

* * *

Holger Förster è direttore del Verband für interkulturelle Arbeit Berlin-Brandenburg, una confederazione che riunisce più di 40 associazioni di migranti.

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