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QT n. 12, dicembre 2018 Cover story

I giovani trentini allo specchio del ‘68: idealisti, ma non troppo

Il mondo oggi tanto diverso suggerisce che con quella stagione, con le sue sfide culturali e politiche, con le sue contraddizioni, debba ancora fare i conti

Gaspare Nevola

Il 2018, 50° compleanno del ‘68, volge al termine; nel corso dell’anno si sono accumulate iniziative editoriali da parte di quotidiani e periodici, tv e radio, come pure conferenze, seminari, convegni; la rete ha visto circolare innumerevoli interventi e commenti sui social o sui blog. Tutto ciò è nella natura e nelle dinamiche di funzionamento della memoria pubblica. Ma nella fisiologia della memoria pubblica si annidano anche i rischi che la memoria si impoverisca in una commemorazione “di maniera”, che tende a devitalizzare e museificare l’esperienza ricordata pubblicamente. Questo scivolamento in una sorta di memoria routinizzata ha l’effetto perverso di “svuotare la memoria” proprio mentre si propone di sollecitarla: di impoverire la vitalità connaturata, nel caso del ‘68, ad un “passaggio d’epoca” sociale, culturale e politico innervato di tensioni e questioni ancora oggi aperte. Il ‘68 ricordato sembra spesso prosciugato della vitalità che (nel bene e nel male) ha caratterizzato la sua cultura politica: la contro-cultura del ‘68. Ma il ‘68 non è (ancora) una stagione consegnata alla storia, chiusa, alle nostre spalle. Il tema degli ideali e dei valori associati a quella stagione e della loro eredità per un mondo oggi tanto diverso suggerisce infatti che con quella stagione, con le sue sfide culturali e politiche, con le sue contraddizioni, dobbiamo ancora continuare a fare i conti.

La ricerca sugli atteggiamenti valoriali degli studenti del Trentino sulla quale qui ritorniamo sollecita interrogativi e offre spunti di riflessione utili per una “memoria viva”. Consente un esercizio di “cultura di attualizzazione della memoria”, come l’ha definita lo storico antichista Assmann, e che riqualificherei come un lavoro di riapprendimento e di riappropriazione di un’eredità culturale, di una memoria collettiva e di un patrimonio di ideali e di valori.

La nostra ricerca offre un contributo per valorizzare uno sguardo, un tipo di analisi sul ‘68 che trova poco spazio in altre iniziative commemorative e occasioni di riflessione. Piuttosto che concentrarci sulle cause, sullo svolgimento o sull’”autentico” significato dell’esperienza sessantottina, sui caratteri del ‘68 storico e sulle ricostruzioni e le memorie personali da parte dei protagonisti dell’epoca, il nostro accento cade sull’”eredità nel presente” di quella stagione, sui suoi riflessi (visibili o latenti) che si annidano nelle pieghe della società di oggi. Quest’obiettivo, è stato perseguito mettendo a fuoco il “rapporto inter-generazionale” intorno al ‘68, fatto di continuità e discontinuità, convergenze e divergenze tra l’universo valoriale-ideale dei giovani del ‘68 e quello dei giovanissimi di oggi. Soprattutto, abbiamo dato attenzione ai valori dei giovani messi davanti allo specchio di quelli dei giovani di ieri, sollecitando i primi a prendere posizione rispetto alla costellazione valoriale dei giovani mobilitatisi mezzo secolo fa. Si tratta di un tema spesso rimosso nella cultura politica dei nostri tempi, o trascurato quando ci si occupa del ‘68.

Le domande

Le 20 domande che il questionario ha posto agli studenti trentini sono state categorizzate, ossia riclassificate, secondo quattro principali “insiemi valoriali” caratteristici della cultura politica democratica e formulati nei termini in cui sono stati ripresi dagli ideali della contestazione messa in scena dalla “generazione del ‘68”. I 4 principali ideali attorno ai quali abbiamo riaggregato i temi del questionario sono: 1) la libertà, 2) il sapere critico, 3) l’eguaglianza, 4) la partecipazione. Attorno a questi ideali abbiamo dato forma all’identità generazionale di molti ventenni dell’epoca. Ad emergere sono una serie di valori che hanno segnato anche una contrapposizione generazionale con l’universo valoriale, le pratiche e convinzioni, le aspettative e i modelli di comportamento o di relazione degli adulti di quegli anni. Tutti permeati da un diffuso anti-autoritarismo, quei valori della “contro-cultura” del ‘68 rappresentano il nucleo di una rottura generazionale e rispetto al quadro dei valori “tradizionali” dominante nella società occidentale, quel quadro che si era riplasmato nel dopoguerra attraverso la cultura industrialista, riformista e modernizzatrice più o meno condivisa dalla sinistra socialista-comunista e dal centrodestra liberale o democristiano.

Come “reagiscono” i nostri giovani di fronte agli ideali agitati dai coetanei del ‘68?

Siamo soliti vedere i giovani di oggi come una generazione paralizzata dal “disagio giovanile”, fragile, immersa nelle incertezze e insicurezze del vivere quotidiano, senza veri orizzonti futuri, popolata da tanti “bamboccioni”, cinici e opportunisti. Giovani, sembrerebbe, incapaci di nutrire valori duraturi o ideali di un qualche respiro, ma inclini a bruciare le passioni in piccoli fuochi di paglia che non lasciano brace. Giovani, in fondo, senza veri ancoraggi ideali, ma nemmeno nichilisti. Emergono, piuttosto, giovani spesso “democratici perbene” o “perbenisti democratici”, permeati da un “civismo adattivo”2 appreso come si apprende a respirare.

I risultati dell’indagine ci consegnano un’immagine dei giovani di oggi e del loro universo valoriale che offre parecchi spunti di riflessione3. Nell’insieme sono ragazze e ragazzi che sembrano condividere, almeno a grandi linee, il quadro ideale dei giovani del ‘68: i valori libertari e anti-autoritari nella sfera dei costumi e negli stili di vita, nell’ambito della fede religiosa e rispetto alle istituzioni ecclesiastiche; i valori dell’eguaglianza di genere e dell’eguaglianza socioeconomica; i valori del sapere e della conoscenza critica nel campo dell’istruzione; i valori della partecipazione attiva nella sfera politica. Questa condivisione inter-generazionale degli ideali e dei valori della contro-cultura e della contestazione sessantottine non è un risultato atteso. Ma questa condivisione non va nemmeno sopravvalutata. Se esaminiamo più in dettaglio emergono, infatti, alcune differenze di orientamento nonché alcune tendenze contraddittorie o incertezze significative. Da qui interrogativi interpretativi ma anche spunti di riflessione sia sulla stagione dell’”idealismo attivo” della contro-cultura sessantottina sia su quella del “civismo adattivo” democratico della nostra epoca e della sua sub-cultura giovanile.

La libertà come ideale: jeans, grembiule e “contro-quaresimale”

Con le domande 2, 3 e 12 abbiamo sintetizzato alcuni elementi valoriali che ruotano attorno all’ideale “libertà” in circolazione tra i movimenti studenteschi e i giovani del ‘68 sul piano: 1) dei costumi sociali; 2) della religione. Nel primo caso, consideriamo il tema dell’abbigliamento a scuola, richiamando l’attenzione sulle polemiche di quegli anni intorno al divieto di indossare jeans e all’obbligo per le ragazze del grembiule. Nel secondo caso, il tema dei contenuti ideali della religione-fede e la loro coerenza o meno con la dottrina cattolica ufficiale e con la condotta della Chiesa-istituzione.

Jeans e grembiule a scuola. L’irruzione dei jeans nelle aule scolastiche e la lotta contro l’obbligo per le ragazze del grembiule a scuola sono espressione, sul piano dei costumi, di atteggiamenti anti-conformistici, anti-tradizionalistici in ambito scolastico e riguardo all’eguaglianza delle donne. Questi atteggiamenti sono indice di orientamenti valoriali di tipo libertario e anti-autoritario, che rivendicano libertà e liberalità nei costumi e nelle pratiche della vita quotidiana e nelle istituzioni. Per gli studenti trentini intervistati (domanda 2), la lotta del ‘68 a favore dei jeans a scuola ha segnato un’evoluzione positiva, anti-autoritaria e di libertà (così per l’83% delle risposte). Tuttavia, questo risultato è un po’ stemperato dal 36% che condivide, un po’ a sorpresa, un giudizio critico su questo mutamento di costume (“è stata una regressione”, anche perché ha portato a scuola professori in jeans, mentre “la scuola si fonda sull’ordine esteriore e sull’autorità – rappresentata anche nel modo di vestire – di chi la dirige”). D’altra parte, una maggioranza (quasi il 53%) ritiene ininfluente la possibilità di indossare jeans a scuola, “perché al cambiamento nel modo di vestire non si è accompagnato un reale cambiamento nel modo di essere e di pensare”: un risultato che può lasciare stupiti massmediologi, pubblicitari e sociologi del marketing. Risultati simili di approvazione ma anche di ambivalenza emergono a proposito della lotta contro il grembiule femminile (domanda 3): qui, inaspettatamente, “solo” il 63% si schiera con “il movimento ha fatto bene” (nel caso dei jeans a scuola i favorevoli sono l’83%), mentre circa un terzo condivide il giudizio “il movimento ha fatto male”, perché il rispetto per le istituzioni passa anche attraverso l’abbigliamento. Insomma, i ragazzi di oggi sul piano dei costumi si associano all’orientamento valoriale libertario dei loro “antenati del ‘68”, ma risultano più propensi al rispetto dell’ordine, delle istituzioni e dell’autorità: libertari sì, ma con moderazione. Resta da chiedersi quanti favorevoli e quanti contrari avremmo contato in un’inchiesta nelle aule delle scuole intorno al ‘68. Forse numeri non molto dissimili.

Il “contro-quaresimale di Trento. La vicenda trentina del “contro-quaresimale” è espressione, sul piano della religione, di atteggiamenti e sentimenti religiosi espressivi di contenuti di fede che travalicano i confini e i vincoli della religione istituzionale, contenuti che profilano una religiosità pervasa da orientamenti valoriali, anche in questo caso, anti-autoritari, in conflitto con quelli istituzionalizzati nelle pratiche religiose, che rivendicano il “libero credere” e a una maggiore coerenza tra i valori evangelici “autentici” e quelli “praticati” dalla Chiesa. Il “contro-quaresimale”, in un certo senso, è simbolo di una religiosità aperta alla secolarizzazione e al secolarismo, che negli anni ‘60 cresceva anche in Italia, non all’ateismo: questo il succo del “dissenso cattolico” dell’epoca.

Agli studenti trentini il questionario ha sintetizzato la vicenda del contro-quaresimale del 1968 a Trento (domanda 12). Meno del 7% la conosceva. In Duomo, durante la Quaresima, uno studente di Sociologia contesta e interrompe il predicatore e, poi, sul sagrato, dà lettura, con altri studenti, di pagine del Vangelo, di don Milani e di padre Balducci; i cattolici trentini, tradizionalisti, assediano la facoltà di “Zozzologia” occupata dagli studenti e sono arginati dalla Polizia. Dietro l’episodio c’è il fermento di movimenti del dissenso cattolico, delle “aperture” del Concilio Vaticano II e dell’incontro di questi fermenti con la contestazione studentesca: nel nome degli ideali di libertà in campo religioso, di valori cristiani “autentici” in opposizione all’impronta tradizionale e autoritaria della Chiesa-istituzione. I nostri rispondenti condividono la “buona causa” dei “sessantottini cattolici” (il 67% non è d’accordo nel definirli miscredenti ed estranei ai sentimenti cattolici); condividono le accuse alla Chiesa, secondo cui il messaggio evangelico era stato nei fatti sfigurato nelle pratiche del potere e della ricchezza, ma anche la tesi secondo cui i giovani cattolici contestatori dell’epoca non produssero alcun cambiamento nelle istituzioni ecclesiastiche (il 70%); in due casi su tre concordano con il giudizio secondo cui i militanti del ‘68 e i “cattolici genuini” erano accomunati dai valori dell’egualitarismo e dell’anti-autoritarismo, mentre la stragrande maggioranza (87%) si associa al giudizio che benedice quei giovani, credenti o non, che si sono battuti contro “strutture e ingiustizie millenarie”. Risultato finale: echeggiando Alberoni potremmo dire che Movimento batte Istituzione 3 a 1. Forte resta l’impressione, però, che il valore “libertà” espresso dalla religiosità secolarizzata sia giunto ai giovani interpellati oggi come qualcosa di estraneo alla loro sensibilità e alla loro cultura.

La “conoscenza critica” come ideale: abbasso il nozionismo

Le domande 5, 6 e 7 richiamano l’attenzione sui temi della conoscenza e dei saperi, sulle forme della didattica e i contenuti di ciò che si studia a scuola e all’università. Qui l’ideale al centro della contro-cultura del ‘68 rimanda ad una “conoscenza critica”, all’idea che tra “sapere e potere” ci sia un legame inscindibile e che perciò è cruciale che l’”interesse della conoscenza” sia orientato verso l’emancipazione dell’uomo dalle catene della sudditanza e della miseria civile e materiale: la conoscenza deve fornire strumenti critici per porre rimedio alle condizioni di diseguaglianza e all’”uomo a una dimensione”. Saliente bersaglio critico diventa, qui, l’economia utilitaristica e del consumismo dominante nelle società capitalistiche sviluppate, dove il mercato regola produzione e distribuzione non solo dei beni privati ma anche dei beni pubblici e di cittadinanza, fino a completare il passaggio da un’”economia di mercato” a una “società di mercato”.

A questi temi valoriali si saldano due ulteriori temi: quello di un mutamento degli schemi della didattica, affinché si apra a maggiore “orizzontalità” e al contributo attivo proveniente “dal basso”, dagli studenti; e quello di un raccordo tra studenti e lavoratori, tanto nei processi di conoscenza della realtà sociale quanto nell’utilizzo delle conoscenze nella lotta per il cambiamento sociale, nella rivoluzione. Da qui l’accento sul bisogno di affermare una “scienza critica”: che la scienza non sia ridotta solo a tecnica di riproduzione dell’ordine esistente.

Una delle chiavi di volta di questo approccio critico del ‘68 nel campo della conoscenza e della cultura, della scienza e dell’istruzione trova sintesi nelle parole pronunciate da Rostagno in piazza a Trento: “Perché noi studenti protestiamo? Perché a scuola ci insegnano quanto sono alte le piramidi, non come vivevano e come morivano gli schiavi che le costruivano” (domanda 5). Cinquant’anni dopo, gli studenti trentini condividono ampiamente questo atteggiamento valoriale (quasi l’80%) e sottoscrivono anche l’idea che “aprire gli orizzonti culturali e sociali è sempre positivo” (54%); resiste però (16%) chi respinge l’idea che sapere e potere marciano insieme (“forse le intenzioni erano positive, ma fu tutto buttato in politica”), mentre solo il 4% condivide una visione dogmatica e scientista della scienza (“il significato e la solidità della conoscenza non vanno messi in discussione”).

Ma è anche vero che gli intervistati (domanda 6) si spaccano quasi a metà di fronte all’affermazione che vede la “nuova conoscenza” come un paravento, poiché “in realtà gli studenti volevano studiare poco o niente ed essere promossi”, con conseguenze negative per la scuola e per l’università, dove alcune facoltà ne risentono ancora oggi: il 53% la condivide e il 47% la disapprova.

Sollecitati a posizionarsi di fronte alle richieste del “6 politico”, della promozione assicurata e dell’esame di gruppo che hanno attraversato in quegli anni il movimento studentesco, i nostri ragazzi approvano in prevalenza la funzione selettiva della scuola: solo un terzo ritiene giusta l’idea che la scuola debba insegnare ma non bocciare; ma ammontano a due terzi coloro che, pur bocciando rivendicazioni come quelle del “6 politico” o la presenza di opportunismi o parassitismi tra gli studenti dell’epoca, ritengono che la molla fondamentale della protesta studentesca fu “la ricerca di un nuovo orizzonte più ampio, per la propria conoscenza e per la propria vita”. Gli studenti trentini di oggi si mostrano invece compatti e coerenti su quello che un tempo si chiamava il rapporto tra teoria e prassi (domanda 7). Promuovono a pieni voti il tentato raccordo sessantottino tra studenti e operai nei processi di produzione della conoscenza e di circolazione della cultura, un raccordo finalizzato, per un verso, a far entrare la realtà sociale rappresentata dai suoi soggetti concreti dentro l’università (di per sé ritenuta troppo immersa nell’astrattezza dei suoi libri); e, per l’altro verso, a far entrare la conoscenza dentro le fabbriche, per trasformare in “prassi”, in potere pratico, la “teoria”, e così alimentare la lotta per il cambiamento della società, la rivoluzione: il 94% condivide che fu un atteggiamento positivo, poiché “gli studenti dovrebbero portare le loro conoscenze anche nella vita sociale, e da essa imparare”; il 78% rifiuta l’idea che “gli studenti dovrebbero solo studiare, e non fare gli agitatori”.

Quanto in questi orientamenti valoriali dei giovani di oggi pesino, da una parte, la consapevolezza dei complessi e intimi legami tra sapere e potere, del significato della “conoscenza critica” e del congiungimento tra “teoria e prassi” oppure quanto pesi la cultura dell’”alternanza scuola-lavoro” dei nostri tempi, è una questione che lasciamo aperta alla riflessione del lettore, mantenendo segreta la nostra valutazione. (1 - continua)

Note

1. Le domande chiedevano agli intervistati di dire se condividevano “molto”, “abbastanza”, “poco” o “per niente” una serie di affermazioni-giudizi proposti sui vari temi. Nel trattare i dati, abbiamo “dicotomizzato” le loro risposte, suddividendole in “condivido (molto o abbastanza)” e “condivido (poco o per niente)”.

2. Sul concetto di civismo adattivo cfr. G. Nevola, Giustizia sociale e giovani, Edizioni Lavoro, Roma, 2000; Id., I giovani d’oggi: davvero “cinici e vuoti”?, in “Palomar”, 4, 2000; Id., Ragioni e metodo di una ricerca, in “Questo Trentino”, giugno 2018.

3. Ricordiamo, tuttavia, che i risultati di indagini come la nostra devono tenere conto dei limiti conoscitivi e metodologi propri delle inchieste campionarie statistiche (survey). Ricerche di questo tipo, infatti, misurano “atteggiamenti dichiarativi” (e cioè istantanee reazioni verbali a stimoli- domande verbali, che rappresentano la dimensione più superficiale e mutevole di una cultura politica) e non già opinioni informate e ponderate, né condotte di vita osservate direttamente e nel corso del tempo (che rappresentano la dimensione più profonda e più stabile di una cultura politica), come avviene con le ricerche etnografiche o basate su osservazione partecipante. Cfr., R. Bellah et al., Le abitudini del cuore, Armando, Roma, 1996; G. Nevola, Bellah e le “abitudini del cuore”, in “Quaderni di Scienza Politica”, 1, 2012.