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QT n. 3, marzo 2018 Monitor: Teatro

“Dormono tutti sulla collina”

“Spoon River” e la giovane intellettuale

Dormono tutti sulla collina”: parole magiche che subito ricordano la mitica fusione tra la migliore musica di Fabrizio De André e gli struggenti testi dell’”Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Master. Nello spettacolo presentato al San Marco, le liriche di De André dal celeberrimo LP “Non al denaro, non all’amore, né al cielo” (ci piace sottolineare l’intima bellezza di questi titoli, che sono versi da Spoon River) vengono coniugate con un’ulteriore storia: quella della traduttrice di Edgar Lee Masters, Fernanda Pivano.

È un’operazione quindi su più livelli: il microcosmo di Spoon River, con i mirabili, dolenti epitaffi ai suoi abitanti, come scritti da Masters; le sonorità di De André, al meglio della sua arte; la vicenda di una ragazza italiana di buona famiglia, che dagli anni ‘30-’40 in poi, incontra alcune vette della cultura italiana (Cesare Pavese, Primo Levi) e si interfaccia, traduce, conosce e diffonde in Italia diversi dei protagonisti più profondi e innovativi della letteratura americana, oltre a E. L. Masters, anche Hemingway, Faulkner, Fitzgerald, e poi la beat generation, Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Henry Miller, Charles Bukowski…

Il personaggio della Pivano, efficacemente interpretato da Maura Pettorruso, in scena splendente di particolare bellezza, giovane donna che doveva confrontarsi con un mondo maschile (“È intelligente, ma naturalmente non quanto suo fratello, d’altronde che se ne farebbe, è donna…” - le veniva ricordato da ragazzina) e vicende storiche anche rudi (il fascismo, la guerra, la Resistenza, e poi il mondo della cultura italiana del dopoguerra) riesce a risaltare nella sua complessità e, per l’epoca, innovatività. Lo spettacolo riusciva a compiere il salto mortale: sovrapporre, fondere, i personaggi di Spoon River da una parte, con le vicende della loro scopritrice italiana dall’altra; le canzoni di De André (interpretate da Massimo Lazzeri e Daniele Filosi) e i ricordi autobiografici della Pivano.

Una cosa risultava il contrappunto dell’altra: il malato di cuore di Masters, e il dolente rapporto della ragazza con il suo mentore, sentimentalmente rifiutato, Cesare Pavese; il suonatore Jones ed Ernest Hemingway, e così via. Gli occhi si inumidivano per le struggenti liriche; e l’interesse si accendeva per quella ragazza che cercava e trovava la sua strada in un mondo non facile.

Uno spettacolo che, così impostato, non era una scommessa scontata. Anche perché si poteva correre il rischio di stiracchiare Spoon River, facendogli fare da sottofondo a temi e periodi storici troppo disparati. Forse per questo lo spettacolo a un certo punto si arrestava, chiudendo la biografia di Fernanda Pivano a metà strada, con il rapporto con Hemingway, quando ci sarebbe stato molto altro ancora da proporre, in parole e musiche (buttiamo lì un’idea: la beat generation e come contrappunto il blasfemo ucciso dalle botte delle guardie di Spoon River). In punta di piedi invece lo spettacolo si fermava, lasciandoci il desiderio di saperne di più su quella donna intelligente e coraggiosa.

Probabilmente aveva ragione l’autrice (la stessa Pettorruso): non era il caso di strafare: la pur difficile scommessa era già stata pienamente vinta.

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