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QT n. 5, maggio 2017 Cover story

La caduta degli dei

ITAS: era prudenza e sobrietà; ora lusso e avventure. Lo scandalo incrina poteri e travolge sicurezze.

La sede Itas

“Non è più la società dell’Edo Benedetti”. Pronunciato con tono sconsolato, sorriso amaro, scuotimento di testa, questo è il commento generale, di giovani e vecchi, di quelli che Benedetti lo avevano conosciuto e di quelli che prima non l’avevano neanche sentito nominare. Lo sporcarsi dell’immagine di Itas a seguito delle recenti vicende, è per i trentini un trauma. Più ancora di tante altre storie di corruzione, dal Presidente Malossini in galera o al superassessore Grisenti condannato o al megaimprenditore Volani in carcere per contatti con la camorra. L’Itas no, è sempre sembrata di un altro mondo, quello ideale dove si libra il Trentino pulito che vagheggiamo; e dove si trova una Mutua fondata quasi due secoli fa, con 680.000 soci e 440 agenzie in tutta Italia, una solidità patrimoniale a prova di bomba, un codice etico tutto principi bellissimi; e poi ancora, il Premio Itas per il Libro di montagna, la squadra di pallavolo campione del mondo che ha fatto conoscere ovunque il nome di Trento...

Ermanno Grassi e Giovanni Di Benedetto

Anche Qt – lo confessiamo – che negli anni ha associato Itas a Isa (e poi a Fondazione Caritro) nella triade dei poteri forti che malignamente condiziona il rapporto politica-economia, anche noi abbiamo avuto un sentimento di riguardo per la storica Mutua che nel corso dei decenni ha protetto le attività di decine di migliaia di trentini, e poi ha saputo espandersi in tutta Italia.

Su questo spiazzamento, su questa convinzione che Itas significhi Trentino onesto.., su questo ha giocato l’ineffabile presidente Giovanni Di Benedetto. Ma in senso brutalmente opposto: additando all’assemblea del 27 aprile i soci trentini come la zavorra, la parte arretrata della compagine sociale, che si attarda in scandaletti da due soldi perché vorrebbe rimanere nel ‘900 se non nell’800; e cercando di contrapporle la parte dinamica, coloro che vengono dal resto d’Italia e vogliono una compagnia grande, moderna, forse spregiudicata, ma che comunque sappia crescere in fretta. Edo Benedetti, prudente e sobrio, è morto; viva Di Benedetto e i suoi fidi, voraci predatori del XXI secolo!

I protagonisti

Per capire questa dinamica, dobbiamo ripercorrere con uno sguardo d’insieme le varie tappe dello scandalo, che si sviluppa a diversi livelli; sostanzialmente nei rapporti tra il direttore generale Ermanno Grassi e la sua collaboratrice Alessandra Gnesetti da una parte, e in quelli tra Grassi e Di Benedetto dall’altra.

Prima però, introduciamo i due personaggi principali.

Anzitutto Giovanni Di Benedetto: classe 1944, di Pordenone, una vita in Itas, da quando aveva 21 anni. Ma non solo Itas, vanta un passato politico significativo: sempre a 21 anni si iscrive in Friuli alla DC, allora partito pigliatutto, e dal 1970 diventa sindaco, poi via via consigliere regionale, assessore, e infine senatore nell’XI legislatura, dal ‘92 al ‘94, quella crollata sotto Mani Pulite. E crolla anche Di Benedetto, prima arrestato e poi oggetto di ripetute sentenze definitive di applicazione della pena – come scrive anche il Corriere – per una lunga serie di reati: corruzione, corruzione aggravata, violazione delle norme sul finanziamento dei partiti, turbata libertà degli incanti, abuso d’ufficio, tentata truffa, violazione delle norme edilizio-urbanistiche, violazione delle leggi finanziarie, tentata istigazione alla corruzione, evasione delle imposte. Attraverso un accorto uso dei patteggiamenti, pagamento di multe, restituzioni di complessivi 120 milioni a Comune e Regione e un affidamento in prova ai servizi sociali, Di Benedetto estingue i reati.

Bene, la società deve reinserire chi ha sbagliato. Ma è il caso di attribuirgli posizioni di vertice assoluto e di massima responsabilità? Nella Mutua infatti il nostro fa carriera non solo fra gli agenti Itas (di cui diventa presidente nel 2002), ma anche ai vertici: nel 2010 entra nel cda di Itas Mutua e due anni dopo viene addirittura nominato presidente. Su questo ritorneremo.

Il secondo personaggio è Ermanno Grassi: classe ‘66, entra in Itas dopo la laurea in giurisprudenza, e in breve scala la società. Vicedirettore generale nel 2009, condirettore generale (assieme a Fabrizio Lorenz) l’anno successivo, direttore generale unico nel 2012. È l’anno in cui scompare Edo Benedetti, ed è proprio Grassi a seppellirne i principi e lo stile: prudenza e sobrietà vengono rottamati. Se Benedetti dopo le riunioni si faceva accompagnare a casa in macchina da qualche consigliere, Grassi si muove in elicottero. All’occorrenza ha anche una Porsche Cayenne (a carico di Itas naturalmente) e di una Porsche Boxter fornisce la collaboratrice Gnesetti (paga sempre Itas); e poi appartamento in centro di 400 mq, vestiti firmati ecc, tutto a carico della società. È anche arrogante fino al ridicolo: si fa chiamare “Zeus” dai sottoposti, e “divini” sono i collaboratori più stretti.

Una spirale senza fondo

È in questo significativo contesto che – secondo l’avviso di conclusioni delle indagini, firmato dal PM Carmine Russo - all’interno di Itas viene realizzata una sottostruttura, con al vertice Grassi e braccio esecutivo Alessandra Gnesetti. Scopo: distribuire e distribuirsi soldi e beni di Itas. Uno dei meccanismi – sempre secondo i PM – è il seguente: Grassi crea un conto all’interno dell’azienda per acquistare gadget, lui e gli altri beneficiati vanno in negozi di lusso a comperarsi beni di valore, non pagano e il negozio fattura a una società (Target sas, il cui titolare è indagato, come indagato è il titolare della società di Padova che ha procurato le Porsche) che poi fattura ad Itas.

Il meccanismo, ben oliato e che fa contente tante persone, viene a galla per un accidente del destino: Grassi e Gnesetti, il direttore e l’impiegata, entrano in rotta di collisione. E qui si susseguono una serie di fatti, non del tutto razionali, che portano i nostri a infilarsi in un tunnel che ad oggi sembra senza uscita.

Tutto inizia nel gennaio 2014, con Grassi che toglie a Gnesetti il ruolo di responsabile dell’ufficio acquisti. L’impiegata non ci sta e il caso allora viene preso in carico da Di Benedetto (che poi cercherà di fare lo gnorri, io non sapevo niente), il quale dopo un’indagine interna dà ragione a Grassi, che demansiona Gnesetti cui Di Benedetto (affermazioni di Grassi, il Presidente a tutt’oggi dice di non sapere niente) propone l’esilio: distaccamento presso un’agenzia a Valpiave (Belluno). Gnesetti non accetta e intenta una causa di lavoro prima, e civile poi. La vicenda comincia ad uscire dalle mura di Itas.

Giungiamo così all’aprile 2015, col giudice del lavoro che accoglie il ricorso di Gnesetti sul demansionamento e la fa rientrare in azienda. A questo punto è il megadirettore Grassi che non accetta la sconfitta, e passa alle armi pesanti: licenzia Gnesetti, accusandola di essersi impossessata (i famosi acquisti addebitati ad Itas) di 387.000 euro nel 2013 e 47.000 nel 2014. I nostri si sono ormai incartati in una spirale che li conduce sempre più a fondo. Gnesetti infatti, come logico non ci sta ad essere messa su una strada e presenta ricorso contro il licenziamento affermando di avere eseguito procedure indicate da Grassi, e di non essere pertanto licenziabile per giusta causa.

Il gioco si fa sempre più duro: Grassi – siamo nel dicembre 2015 - denuncia Gnesetti per calunnia, accompagnato in Procura, secondo Grassi, dallo stesso Di Benedetto (e il suo avvocato è Marco Di Benedetto, figlio del presidente). Ormai siamo sul piano penale, e su questo livello prosegue anche Gnesetti, che peraltro già da tempo stava vuotando il sacco dai Ros.

A completare il quadro, nell’agosto 2016 il giudice del lavoro nel merito del licenziamento, pur dando torto all’impiegata, inoltra il fascicolo alla Procura della Repubblica per eventuali altre responsabilità sul piano penale: in poche parole ritiene credibili le affermazioni di Gnesetti sul sistema delle regalie.

È questa poi la conclusione cui perviene la Procura, che nell’aprile di quest’anno interdisce Grassi da cariche dirigenziali e conclude la prima fase dell’inchiesta con cinque indagati: Grassi, Gnesetti, il dirigente dell’Itas Paolo Grassi, il titolare di Target sas (per i gadget di extralusso) e quello di Point rent car (per le Porsche).

Il secondo livello

Giuseppe Consoli

Ma c’è un secondo livello della vicenda, più importante e più fosco, riguardante i rapporti tra Grassi direttore generale e Di Benedetto presidente, che coinvolgono anche il vicepresidente Giuseppe Consoli. I tre dovrebbero formare una squadra, invece si fanno una guerra sotterranea senza esclusione di colpi. Secondo Grassi, messo alle strette dagli inquirenti, tutto inizia in un incontro a tre Di Benedetto-Grassi-Consoli del febbraio 2016: è lì che il presidente mostrerebbe di svolgere indagini sulla vita privata dei dipendenti. Gli altri due – sempre secondo Grassi – decidono di cautelarsi assumendo un investigatore. In effetti Grassi lo fa e con i soldi di Itas. Nella causale dell’incarico (scrive il PM nella conclusione delle indagini) lo scopo è investigare sulla Gnesetti, mentre l’obiettivo vero - dicono Grassi e Consoli - è una malalingua che starebbe influenzando il presidente, ma poi, alla prova dei fatti, l’obiettivo sembra proprio Di Benedetto. Il 20 marzo 2016 l’investigatore può mandare a Grassi un sms trionfante: “Sono fritti”.

Per i PM questo è un ricatto: il giorno seguente il cda deve riunirsi, e in effetti delibera un sostanzioso extra-premio a Grassi (392.000 euro). Il trio Di Benedetto-Grassi-Consoli, indignato, smentisce: il premio era cosa già deliberata, il passaggio in cda una mera formalità.

Può essere. Ma l’estorsione di Grassi, secondo l’accusa, aveva anche un’altra finalità, “costringeva il presidente del consiglio di amministrazione della Itas mutua spa a non avanzare richieste di danni della società o presentare querela” per le truffe descritte da Gnesetti.

E soprattutto rimane il tema di fondo: quali sono le risultanze emerse dall’investigazione a carico di Di Benedetto, che orgogliosamente si dichiara “non ricattabile” e che invece “è fritto” secondo il detective? E più in generale: cosa mai è diventata Itas, dove i dirigenti reciprocamente si spiano e assumono informazioni riservate? Può una società operare serenamente, quando i suoi manager sono impegnati in sanguinose guerre intestine?

Grassi e Di Benedetto, infatti, sembrano avvinghiati in un rapporto molto più complesso di quanto i due (o i tre con Consoli) vogliano far credere. Di Benedetto infatti dapprima dichiara di nulla sapere della vicenda Gnesetti (e abbiamo visto che non è vero); poi, di fronte alle prime evidenze della magistratura, copre Grassi; quindi minimizza, ancora nel novembre del 2016 un audit interno a Itas non rileva “condotte improprie da parte del direttore generale”; un mese prima, in ottobre, si era arrivati alla sceneggiata: Di Benedetto chiama una ditta specializzata per bonificare il suo ufficio, viene trovata una microspia disattivata, ma il presidente si guarda bene dall’informarne la magistratura, con motivazioni risibili: “La microspia era disattivata” e addirittura “Non sapevamo chi l’avesse messa”, come se non fosse possibile sporgere denuncia contro ignoti; solo all’assemblea del 27 aprile il presidente scarica definitivamente il direttore generale, individuato come la mela marcia.

Ma ormai è chiaro che Itas Mutua ha un problema di credibilità dei vertici. I soldi dissipati nel lusso (oltre a quelle fatte scoprire da Gnesetti gli inquirenti hanno trovato altre costosissime spese di Grassi addebitate a Itas: viaggi, vacanze, il maxi-appartamento di 400 metri quadri, un ricco e immotivato stipendio alla ex-moglie), i nepotismi sfacciati (l’avvocato di riferimento di Itas è diventato Marco Di Benedetto, che col padre presidente non solo – secondo un documento interno della stessa Itas pubblicato dal Trentino – percepisce un totale di compensi stratosferico, 600.000 euro nel 2016, ma anche, per le vertenze minori, un compenso medio che è oltre il doppio di quanto percepito dagli altri legali), le guerre intestine a suon di microspie e indagini sulla vita privata, descrivono una società lontanissima non solo dal virtuoso codice etico che sbandiera, ma anche dalle condizioni minime di onestà e fiducia interna necessarie per ben operare. È in questo contesto che si arriva all’assemblea del 27 aprile.

Il giorno del giudizio

Neanche si trattasse della trama di una serie tv, all’assemblea della Mutua si arriva, probabilmente per la prima volta nella sua storia centenaria, con due forze montanti, opposte e confliggenti. Da una parte infatti Di Benedetto intende blindarsi sulla lucrosa poltrona apicale attraverso due modifiche dello Statuto: l’abolizione del limite dei mandati in maniera da esercitare un quarto e un quinto mandato (con lampante analogia con quanto fatto da Diego Schelfi a Federcoop, con i noti risultati); e la possibilità di convocare l’assemblea anche fuori dal Trentino, per ancorarla a terre a lui più devote come il Veneto o il Friuli.

Marcello Poli

Ma dall’altra, invece, proprio fra i trentini, sale la consapevolezza di non poter rimanere inerti di fronte allo scempio testé evidenziato dall’indagine giudiziaria. “La domanda che devono farsi i trentini è se il patrimonio ricavato da 200 anni di attività esercitate su questo territorio, debba essere regalato a Di Benedetto e ai suoi” ci diceva con grande chiarezza Marcello Poli, amministratore delegato dell’omonima catena di supermercati, nonché delegato all’assemblea Itas.

Le regalie erano un sistema che non ha riguardato solo Grassi – ci ha detto Marina Mattarei, anche lei delegata e presidente della Famiglia Cooperativa Valli di Rabbi e Sole e storica voce del rinnovamento cooperativo - E tutti sapevano, di regalie, di nepotismi, di standard di vita superiori alle proprie possibilità. È ipocrita dire che siamo tutti caduti dal pero. Ora i sindaci si assumeranno la responsabilità di aver firmato i bilanci, a noi invece spetta chiamare alle proprie responsabilità il cda, in cui pur siedono dei trentini”.

Anche i sindacati confederali – dopo uno sbandamento delle rappresentanze interne, che in prima battuta esprimevano una pelosissima solidarietà ai vertici – chiedono il rinnovo completo delle cariche. E così pure le opposizioni politiche.

Ma qui salta fuori il particolare meccanismo di governance della Mutua. In sintesi, nei vari territori e nelle varie agenzie vengono organizzate per i (700.000) soci le assemblee di base, che eleggono i delegati (192) all’assemblea generale. È evidente il ruolo preminente degli agenti Itas, che non possono diventare delegati, ma organizzano e indirizzano le assemblee di base che per Statuto, sono convocate non mediante lettera, ma semplice avviso in Agenzia 15 giorni prima. E quale socio, che è un semplice assicurato, passa dall’assicurazione ogni dieci giorni? Chiaramente nessuno: insomma, delle assemblee viene a conoscenza solo chi ne viene avvisato dagli agenti. La società è in mano a loro, non ai soci. Così succede che gli agenti extra-trentini, che solidarizzano con l’ex agente Di Benedetto per di più capo assoluto, hanno buon gioco nell’organizzare delegati che, poco o nulla sapendo degli scandali nella sede centrale, si stringono attorno alla presidenza. A questi si uniscono i delegati espressi dalla struttura di vertice; in conclusione Di Benedetto ha la maggioranza.

L’uomo però esagera. In assemblea fornisce una ricostruzione dei fatti insieme aggressiva e meramente burocratica, e soprattutto si lancia contro la trentinità accusata di volere una compagnia piccola, vecchia, ancorata a un territorio “con i ponti levatoi alzati e la popolazione che fa la fame”. L’assemblea diventa una bolgia: “Da un presidente oggettivamente in difficoltà, mi sarei aspettata un minimo di capacità di mediazione, tra i fedelissimi comunque allineati e chi chiedeva risposte” commenta Mattarei.

A farne le spese è chi – Marcello Poli – osa chiedere delucidazioni sul bilancio: in particolare su come mai non sia contabilizzata la vendita a Ermanno Grassi del superattico di piazza Silvio Pellico. Domanda più che legittima, che pone interrogativi sull’ampiezza delle connivenze di cui il direttore poteva godere, ma anche su come siano redatti i bilanci della società. Interrogativi che evidentemente colgono il segno: infatti non un delegato dalla platea surriscaldata, non uno dei disturbatori appositamente appostati per impedire gli interventi scomodi, ma lo stesso Di Benedetto apertamente rivolge un greve insulto a chi chiede lumi sui suoi numeri.

Il fatto risulta emblematico di una situazione fuori controllo. La presidenza, puntando sulla contrapposizione italiani contro trentini, cerca in tutti i modi di far approvare le modifiche allo Statuto e anche una mozione in cui si approva il comportamento di presidente e cda nelle vicende giudiziarie.

E qui Di Benedetto ancora una volta esagera, l’assemblea non ci sta. Al punto che anche Giorgio Franceschi, vecchia volpe dei poteri forti trentini, uomo simbolo di Isa, compagna di tante (troppe) avventure finanziarie, anche Franceschi prende le distanze: queste mozioni, per di più presentate come antidoto all’orrido, regressivo trentinismo, non possono essere approvate. E così è: le modifiche statutarie vengono rinviate; l’assemblea non approva, ma “prende atto” dell’azione del presidente rispetto a Grassi e soci.

Inadeguati

Marina Mattarei

Tutto bene, quindi? Niente affatto. A dire il vero Marina Mattarei un lato positivo lo individua: “I dibattiti preliminari sui territori – dice. - Prima non c’era consapevolezza che quando sottoscrivi una polizza tu diventi socio, e gli agenti si costruivano il consenso attivando i soci ritenuti affidabili, era una procedura che non esprimeva alcuna mutualità. Ora invece c’è stata una presa di consapevolezza, lo scandalo ha innescato un confronto tra i delegati, e in prospettiva la necessità di meccanismi per far svolgere il ruolo di soci”.

Resta però il presente: una società in cui evidentemente i controlli sono labili. Come ha potuto un Di Benedetto, con il suo passato, arrivare ai vertici? Abbiamo provato a chiederlo a membri dei passati cda, e abbiamo ottenuto risposte imbarazzate ed evasive: “Non saprei… non contavamo molto…”. “Con Edo Benedetti – ci dice Geremia Gios, docente di Economia ed anch’egli nel cda di Itas, nel 2007 – c’era un clima complessivo in cui il controllo era labile, la gestione completamente fiduciaria. Il che funzionava; ma quando la compagnia ha iniziato a espandersi, chiaramente questo modello ha iniziato a non essere più adeguato”. Insomma, venuto meno il padre-padrone, e contemporaneamente ingranditasi l’azienda, governance e controlli non sono più risultati all’altezza.

Anche perché, come nelle cooperative, i veri padroni dovrebbero essere i soci; ma, sempre come nelle cooperative grandi, il padrone diventa chi organizza il consenso. E in Itas a fare questo lavoro sono gli agenti, che però sono una parte in gioco, con interessi specifici: di qui il fatto che al vertice sia andato uno di loro, che ha perseguito la loro politica. “Non è un caso che tutte le banche e assicurazioni che hanno avuto problemi, avevano un commerciale alla guida” ci dicono a Economia. “Le Banche popolari, ad azionariato diffuso, hanno registrato fenomeni degenerativi (Credito Valtellinese, Popolare di Milano, Popolare di Vicenza, ecc ) quando l’aumento di dimensione non è stato supportato da una governance adeguata. Se l’Itas ha ambizione di ulteriore crescita, fuori dagli ambiti territoriali, la forma giuridica della mutua non è più adeguata” sostiene Poli.

Il nostro ruolo di soci e di delegati dei soci non è entusiasmante. Ma neanche quello del cda, che ha un ruolo del tutto subalterno – aggiunge Mattarei – A prescindere dall’andamento dell’assemblea, io avrei fatto la proposta di avviare una campagna ed operare le modifiche per far nascere questa consapevolezza e creare dei delegati rappresentativi dei soci. Altrimenti ci sono assemblee pletoriche, con dati sempre positivi, retorica, gadget e applausi. E una governance arbitraria”. E magari avventurosa.

I rischi

“Quando si incrina la fiducia, salgono le perplessità – afferma Mattarei, riferendosi al brutto episodio che ha coinvolto Marcello Poli – A questo punto, siamo sicuri che la recente, grande espansione, sia una cosa sana?

Questo infatti è il punto vero. Oltre i milioncini che raggranellano i dirigenti; oltre la pretestuosa contrapposizione trentini prudenti\veneti dinamici. C’è da essere tranquilli rispetto a un management molto disinvolto, che intraprende una grandiosa espansione?

Perché i conti che sciorina Di Benedetto sono da record: utile sempre notevole e più soci, più premi, più patrimonio. Ma è tutto oro quel che luccica? Non è una storia che abbiamo già visto, con le banche che si ingrandiscono, aumentano i clienti a dismisura, ma poi si ritrovano con un mare di crediti inesigibili?

Tra banche e assicurazioni bisogna distinguere – ci dice un docente di Economia, già in cda di Itas – Le prime hanno a che fare con l’incertezza (un’impresa avrà successo?) le seconde con il rischio (avverrà l’incidente, il furto, l’incendio, la grandinata?). E l’incertezza è aleatoria, mentre il rischio è statistica; e a vigilare sulla correttezza e sostenibilità delle polizze c’è l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (Ivass)”.

È vero – conferma un altro docente di Economia, anch’egli già in cda di Itas – Però… però la politica delle polizze e le verifiche dell’Ivass, si muovono all’interno di una forchetta di valori. Una politica di grande espansione, con il moltiplicarsi di investimenti in persone e strutture, e politiche commercialmente aggressive per attirare clienti, con stime di rischi futuri sempre al limite, può portare a sorprese”.

Sorprese, non rischi. Itas è un istituto molto solido, in 200 anni ha accumulato un grande patrimonio e siamo sicuri che sia in grado di fronteggiare molti eventi negativi. Però, per favore, non esageriamo: a certe mani, il timone è meglio toglierlo.

L’arroganza, di ieri e di oggi

il grattacielo della Pan Am

Si trova sulla Park Avenue, la Quarta Strada di Manhattan, il grattacielo della Pan Am (divenuto sede della MetLife dopo il fallimento della compagnia aerea). Letteralmente sulla strada, a bloccarla di traverso, con due buchini alla base attraverso cui passano le macchine.

Costruito nei primi anni Sessanta, è stato il monumento all’onnipotenza delle compagnie aeree: noi siamo noi e possiamo fare quello che vogliamo, le regole e il buon senso urbanistici valgono per gli altri.

La sede Itas di via Calepina

Il grattacielo Itas per Trento rappresenta pressappoco il medesimo messaggio. Edificato negli anni Cinquanta, alto nove piani, si trova all’incrocio tra via Mantova e via Calepina, a cento metri dal Duomo, di gran lunga più alto del campanile e torreggia su tutto il centro storico. Noi siamo noi, e le regole per noi non valgono.

A New York il grattacielo della Pan Am suscitò roventi polemiche. A Trento non più di tanto. Forse la città sentiva la sua Mutua come propria, anche quando si mostrava sfacciatamente arrogante.

Oggi probabilmente le cose sono diverse: alle Albere, la grande speculazione con Ia consorella Isa, nonostante i troppi favori dei politici e le iniezioni di denari pubblici, non è proprio riuscita. E forse riuscirebbe ancor peggio oggi, quando si è visto come vengono impiegati i soldi accumulati in tanti anni: è pericoloso sottovalutare il comune sentire della gente.

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Commenti (1)

Itas, un mito incrinato Ernesto

La scandalosa situazione all’interno di ITAS è venuta a conoscenza della comunità solo per caso (incidente Grassi – Gnesetti). Si potrà discutere a lungo e sarà solo una perdita di tempo. Mentre ci sono dei punti fermi, solidi come rocce granitiche: un Di Benedetto (di Pordenone?) che nonostante un passato da esclusione riesce a diventare presidente della società ed intrallazza indisturbato; un Grassi (di origini trentine?) che ne diventa il direttore generale senza il necessario curriculum e gestisce l’azienda come un suo feudo. E’ il caso di dire che certe grane ce le andiamo a cercare. La cosa da fare è un bel reset e poi uno start from schratch. E passi non più lunghi della gamba.
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