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Otto marzo

Quel mattino Milano svela un intimo grigio antracite e autoreggenti che fasciano l’aria. L’automobile ferma a un chiosco di fiori. Il mazzetto di mimose odora così intensamente da farmi prudere le narici. D’altronde, il naso, di nascosto lo arriccio, per questa festa discussa. E’ che non sono donna da mimose e poi non amo i fiori recisi, soffro a vederli morire piano in un vaso. Lo sa. Ma siamo diversi.

Il pensiero ricerca presagi rassicuranti. Mi andrebbe bene un otto marzo neutrale. Per coerenza non ho aspettative, ma un minimo sindacale mi piacerebbe. Ho indossato la gonna con lo spacco per sottolineare la ripresa della femminilità dopo mesi di paralisi nel corpo e la mente a seguire. Per dire “basta, non ne posso più” al lungo periodo di buio e pigiami.

L’ospedale è il migliore in campo neurologico. Molti i pazienti in attesa e osservarli m’inquieta moltissimo. Carrozzine, stampelle, tremori, tic esagerati, sguardi assenti o consapevoli, eroici. Bambini mai stati sani che lacera il cuore guardare. Come si può restare indifferenti? E poi, esattamente, cosa faccio qui? Sarà un eccesso di scrupolo, preferiranno escludere piuttosto che tralasciare qualche esame importante. Sicuramente sarò ancora in tempo. Mi metteranno un po’ di paura, così smetterò di fare la Wonder Woman.  Alienazione mentale che si aggrappa all’infanzia dove è tutto da compiersi e il bello deve ancora arrivare.

Il medico, che mi rivede per la seconda volta, mi visita accuratamente e poi annuisce guardando gli esami che mi ha richiesto.  Lo sto studiando attentamente. E’ che non ne posso più di risposte evasive. Questa volta ho insistito per entrare da sola. La campana da palombaro dove mi hanno rinchiuso sei mesi fa, oggi andrà a pezzi.

Non nego che le attenzioni facciano piacere. Da sempre abituata a occuparmi di tutto: figli, casa, lavoro, per un po’ mi sono gustata il riposo della guerriera ammalata di “non si sa bene che cosa ma non è contagioso o mortale”. Ma può bastare una decina di giorni, poi si vuole capire meglio e s’indaga. Ho fatto domande precise e ricevuto risposte vaghe. Ho colto imbarazzi, strane disinvolture, cambi di discorso. I mesi passavano e non mi ristabilivo.

Sono qui per chiarire. Mi aspetto qualcosa di serio, forse un intervento delicato ma risolutivo. A metà strada tra il coraggio e l’incoscienza dichiaro al medico: “Meglio una verità che uccide a una bugia che illude!” E lui estrae lentamente la pistola e mi spara un colpo dritto al cuore. Sclerosi multipla. Muoio restando, scappando immobile, urlando muta, sbarrando gli occhi chiusi. Mi tocca un braccio. “Stia calma, stanno sperimentando nuove cure. Si può convivere. Deve reagire. Voi donne trentine siete molto forti!” Il campanilismo mi sembra una magra consolazione. O ci sarà una geografia delle reazioni a choc da malattie gravi?

Fuori, alle mie spalle, qualcuno aveva taciuto.  Non ho mai assolto quel silenzio.  Non sono donna che delega, convinta del mio diritto di sapere e poi una malattia così non si può nascondere. Enorme spossatezza, paralisi, debolezza alle gambe, andatura malferma, vertigini, scosse elettriche a piegare il collo, dolori profondi simili a una morsa che tortura, formicolii… poi tanto altro ancora. Smetto di elencare perché il solo riandare a cosa iniziava ufficialmente e sarebbe stato da allora una convivente tiranna, è inutilmente doloroso.

Sono uscita da quell’ambulatorio con mille anni addosso, passando impietrita fra i pazienti divenuti compagni di battaglia. Le mimose si sono seccate aspettando e odorano di camposanto. Sono passati tre lustri da quell’otto marzo e sono ancora qui - contenta di esserci, nonostante tutta la sofferenza – ma se ripenso allo choc provato quel giorno, vorrei avere braccia lunghissime per potermi abbracciare.

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Commenti (2)

Iotintadiaria

Roberta carissima... mi commuovono le tue parole!
Soprattutto perchè, conoscendo la donna di spessore che sei, non sprechi mai gli apprezzamenti.
Un abbraccio da Trento a Piombino!

Roberta Barsotti

Io le allungo e da lontano arrivo fino in Trentino per abbracciarti forte forte. Tu non lo sai ma mi "istighi" a vivere, comunque la vita si proponga a noi. E nei momenti difficili, quelli davvero brutti, tutti dovrebbero avere modo di leggerti, di conoscerti. Avessi a disposizione un solo articolo e una sola parola per poterti descrivere, direi "la cura".
Un bacio Nadia, Roberta.
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