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In memoria di don Bibo

Io entrai, novellino, all’Iti “Buonarroti” di Trento, nel 1969, una scuola che non sapevo nemmeno esistesse. Don Bibo (don Livio Botteri) era lì, insegnante già anziano, e autorevole. Insegnava la materia “fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica”: così era definita la dottrina cattolica nel Concordato in vigore dal 1929 fra lo Stato e la Chiesa, inserito addirittura come art. 7 nella Costituzione italiana del 1948.

Don Livio Botteri

Io, all’inizio, guardavo con sospetto a quell’uomo imponente, facile agli aforismi, e temuto per le sue battute fulminanti. Quando parlava nel Collegio docenti tutti tacevano, e ascoltavano. Fra loro c’era anche l’architetto Efrem Ferrari, il progettista della chiesa di San Giuseppe, in cui oggi salutiamo don Bibo.

Quello era il decennio del ‘68, gli anni della contestazione. Si mettevano in discussione i rapporti fra insegnanti e studenti, fra genitori e figli, fra l’uomo e la donna, fra lavoratori e imprenditori, anche fra lo Stato e la Chiesa. Per i cristiani, sull’onda del Concilio Vaticano II, anche fra la fede e la religione, come si era strutturata in istituzione. Queste ultime sono le parole appena dette dal vescovo don Lauro Tisi, nel definire don Livio “cantore di Dio”, talvolta incompreso dalla sua Chiesa.

Don Bibo si muoveva in quei mutamenti, che per molti erano tenebre, alla luce del Concilio appena concluso. Fu la sua fede autentica, nella morte e nella risurrezione di Cristo, che lo rendeva rispettato e amato, dai giovani e dai colleghi, in una scuola contestata, quando la religione cattolica non poteva essere più fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica.

Don Bibo non vide, da insegnante sul campo, la riforma del Concordato del 1981. La sua materia divenne facoltativa, ma rimase confessionale, con programmi e insegnanti scelti dalla Chiesa. Rinunciammo così, però, in una società sempre più plurale, culturalmente e religiosamente, a un insegnamento laico, per tutti, di storia delle religioni. Chissà quanto tempo ci vorrà per arrivarci.

Un giorno, in una pausa, nella sala degli insegnanti, ci fermammo a commentare un versetto del Vangelo di Giovanni (3,19): “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre della luce”. Gli proposi quelle parole perché citate da Giacomo Leopardi in testa al suo testamento filosofico-poetico: “La ginestra, o il fiore del deserto”. Il poeta le usa in senso ironico, anti-clericale, anzi anti-cristiano. Sono le stesse su cui si era arrovellato anche Lutero, di cui commemoriamo i 500 anni della Riforma. Alla fine della discussione, mi disse don Bibo: “Con il pessimismo e la critica di Leopardi, dobbiamo fare i conti, ma io credo che camminiamo con speranza verso la luce”.

Grazie don Bibo.

(Saluto pronunciato nella Chiesa di san Giuseppe).

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