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Scenari del prossimo futuro in Medio Oriente

Il declino di Israele e Arabia Saudita, l’emergere di Iran e Turchia, l’imprevedibilità di Egitto e Pakistan

In Medio Oriente la guerra all’Isis è diventata un po’ la cartina al tornasole capace di rivelare gli scenari del Medio Oriente che ci aspettano di qui a, poniamo, una decina di anni. Già si delineano gli stati in declino e quelli rampanti, gli stati impantanati in problemi pressoché irrisolvibili e quelli pronti a cogliere ogni occasione per emergere sulla scena.

Due paesi oggi sono visibilmente in difficoltà, soprattutto nei loro rapporti con gli Stati Uniti, ovvero Israele e Arabia Saudita, i due vecchi fidati cani da guardia degli interessi occidentali nell’area. Che gli USA abbiano urgente bisogno di una maggiore malleabilità di Israele nella risoluzione del problema palestinese è cosa risaputa, ma Netanyahu fa orecchie da mercante (come del resto vari suoi predecessori), e anzi può addirittura permettersi toni arroganti con l’amministrazione Obama ormai al tramonto. L’Arabia Saudita intanto finanzia l’Autorità palestinese da un lato, e dall’altro sottobanco anche l’ISIS. Si tratta delle due massime potenze dell’area o dal punto di vista tecnologico-militare (Israele) o finanziario ed energetico (Arabia Saudita), paesi-chiave che hanno peraltro due punti in comune. Sono fortemente segnati dall’identità religiosa, in quanto portatori di un’eredità ultramillenaria (Israele) o, nel caso dell’ Arabia Saudita, di una visione ultraconservatrice che è punto di riferimento imprescindibile del moderno fondamentalismo islamico più (apparentemente) “moderato”. Ma i due paesi hanno anche un comune tallone d’Achille, quello demografico: Israele conta meno di 10 milioni di abitanti e l’Arabia Saudita circa 30. Israele è in effetti da sempre ossessionato dal tasso di crescita demografico degli arabi-israeliani e ora, esauritesi le ondate immigratorie degli ultimi anni dalla Russia o dall’Africa, è alle prese col problema di salvaguardare l’identità ebraica dello stato. Cosa che, è notizia di questi ultimi tempi, il governo Netanyahu si accinge a fare tra grandi polemiche, premendo per una nuova costituzione. L’Arabia Saudita, potenza finanziaria planetaria, sconta tuttavia una evidente debolezza demografica di fronte ai due grandi paesi rampanti dell’ area: l’Iran e la Turchia, che hanno un mercato interno di almeno 70-80 milioni di consumatori ciascuno, una industria (non solo petrolifera) aggressiva, strutture sanitarie ed educative di buon livello e soprattutto gli eserciti più imponenti dell’area. Con la Turchia, l’erede dell’impero sunnita ottomano, la contesa è aperta da quando è stato deposto il presidente egiziano Morsi, dei Fratelli Musulmani, con un colpo militare discretamente appoggiato dai Sauditi. I quali non hanno mai visto di buon occhio i Fratelli Musulmani egiziani, appoggiati invece dalla Turchia di Erdogan. Con l’Iran invece il conto è aperto soprattutto per i timori suscitati dalla diffusione dello sciismo nella penisola arabica, dal Bahrein (quasi il 50% della popolazione) allo Yemen, ove di recente gli sciiti del ramo zaydita sono tornati al potere.

Il capitolo curdo

Il presidente turco Erdogan

La Turchia e l’Iran (pur al momento frenato dalle sanzioni) sono oggi i due paesi a più alto potenziale di sviluppo dell’area, destinati fatalmente a contendersi le aree di influenza in modo più o meno scoperto. Per il momento i due paesi mantengono buoni rapporti, diplomatici e commerciali, ma le loro politiche estere sono in palese contrasto, proprio a cominciare dal rapporto con l’ISIS (combattuto dall’Iran e sostenuto dalla Turchia) o con i Curdi.

Il capitolo curdo sta mostrando in effetti aspetti inediti. Con i Curdi i due paesi hanno attraversato fasi alterne di conflitto e appeasement: l’Iran di Khomeyni, negli anni ‘80, condusse una furiosa repressione del movimento curdo al suo interno, ma ora è in prima linea nell’appoggio militare ai Curdi iracheni nella loro battaglia contro l’ISIS. La Turchia ha, parallelamente, represso i curdi interni (quelli del PKK di Ocalan) e si è guardata bene dall’aiutare la loro succursale in Siria che di recente ha difeso strenuamente Kobane; tuttavia mantengono buoni rapporti con il Kurdistan iracheno. Ultimamente s’è detto persino che la Turchia non si opporrebbe più alla costituzione di una repubblica curda indipendente, che segnerebbe la fine dell’Irak unitario e promuoverebbe una ulteriore penetrazione dell’influenza turca nell’area. Questo spiega anche il grande interesse iraniano a difendere dall’ISIS (per ora con l’intelligence e l’invio di armi e istruttori) i Curdi iracheni, sunniti si badi bene, non sciiti; il Kurdistan è insomma già ora territorio fortemente conteso tra Iran e Turchia nel loro piccolo “grande gioco” di espansione. Il Kurdistan peraltro ha tutto da guadagnare da questa rivalità turco-iraniana, potendo beneficiare di volta in volta degli aiuti e degli appoggi dell’uno o dell’altro, secondo l’inveterato saggio principio dei “due forni”. In questo la dirigenza curda si è mostrata abilissima: attualmente i Curdi detengono la presidenza dell’Irak, collaborando da pari a pari con il governo (a maggioranza sciita) irakeno, e allo stesso tempo controllano di fatto un territorio autonomo nel nord dell’Irak, creatosi già al tempo di Saddam grazie a una no-fly zone garantita dall’aviazione militare americana. E persino Israele, in questi anni, ha stretto discreti ma solidi legami economico-commerciali e prestato assistenza tecnica e (si dice) di intelligence ai Curdi, visti come nazione sunnita moderata e aperta alla modernità occidentale, capace di promuovere una certa stabilizzazione nell’area.

Due grandi paesi instabili

Il presidente egiziano al Sisi

Vi sono infine i due grandi paesi musulmani impantanati sin dal secondo dopoguerra in un groviglio di problemi pressoché irrisolvibili nel breve periodo: l’Egitto (quasi 90 milioni di abitanti) e il Pakistan (200 milioni). Questi due sono la vera polveriera del Medio Oriente, due paesi con un peso demografico inversamente proporzionale alle capacità delle élites (spesso corrotte e screditate) di gestire i problemi.

Masse di ex-contadini malamente inurbati nelle periferie delle megalopoli, povertà ed emarginazione diffuse nelle città e nelle campagne, frustrazione endemica delle classi intellettuali e impiegatizie, sfascio delle strutture civili, nessuna risorsa strategica tipo petrolio o gas, e perciò finanze pubbliche perennemente in crisi.

Non è un caso che nei due paesi si siano susseguite, salvo brevi parentesi, lunghe dittature militari e che, anche quando vige un regime di formale democrazia, le leve del potere reale restino in mano alla casta dei generali. L’Egitto ora vede alle sue frontiere la minaccia di terrorismo di marca ISIS in Libia e persino, al suo interno, nel deserto del Sinai.

I Fratelli Musulmani non si rassegnano allo spodestamento del presidente Morsi e ad ogni occasione sfidano i generali nella piazza. Sui quali pesa tra l’altro l’accusa di avere abbandonato al loro destino Hamas e Gaza, prima discretamente sostenuti da Morsi, e quindi di collaborare oggettivamente con Israele. La recente assoluzione di Mubarak, il cui arresto aveva segnato l’inizio della primavera araba, ha riportato il paese nel suo triste autunno di sempre. Ma, c’è da scommetterlo, sotto la cenere cova un incendio che potrebbe propagarsi a tutta la regione e che costringe i militari di al-Sisi a stringere sempre più la presa sul paese limitandone gli spazi di libertà.

Il caso del Pakistan è ancor più grave e preoccupante: potenza demografica e atomica, in bilico tra governi che non sono stati in grado di imbrigliare la deriva fondamentalista (i Taliban, lo ricordiamo, partirono da qui), complicata da un aumento esponenziale negli ultimi decenni delle lotte sanguinose interne al paese tra sunniti e sciiti. Molti osservatori hanno sottolineato che l’Afghanistan è solo la punta dell’iceberg, ma che il problema vero è l’ingovernabilità del Pakistan, il retroterra naturale dei guerriglieri islamisti afghani. Un intervento militare in un paese di 200 milioni di abitanti è inimmaginabile e gli USA si accontentano, attraverso l’intelligence e una complessa difficile navigazione a vista tra i potentati interni al paese, di assicurarsi almeno che le leve del potere della prima potenza atomica musulmana non finiscano nelle mani sbagliate.

Il premier israeliano Netanyahu

In estrema sintesi, il prossimo futuro del Medio Oriente ci presenta una situazione in cui al calo progressivo di influenza di Israele e Arabia Saudita - la cui politica estera è spesso in stridente conflitto con gli interessi americani nell’area e rischia di accentuare gli elementi di instabilità- corrisponderà un emergere inesorabile delle due nuove potenze, Iran e Turchia, che hanno il mix giusto di peso demografico, sviluppo tecnico-scientifico ed economico, naturale vocazione “imperiale” (non dimentichiamo che sono eredi di imperi) e una precisa visione del loro ruolo futuro di potenze egemoni nell’area.

L’incognita è legata agli sviluppi imprevedibili che possono interessare soprattutto i due giganti dai piedi d’argilla, l’Egitto e il Pakistan, e alle capacità delle loro spesso maldestre élites di contenere o limitare il contagio del verbo estremista dell’ISIS, di al-Qaeda e altre organizzazioni similari. Un’ulteriore incognita è legata alle capacità di Israele di saper gestire con saggezza questa lunga transizione, che richiede evidentemente radicali cambiamenti di mentalità e una nuova politica di buon vicinato col mondo palestinese e musulmano in generale, di cui al momento non si vedono proprio i segnali.