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La divisa

Con identico grembiule nero e fiocco di vario colore, in base all’anno di frequenza, le bambine delle elementari apparivano tutte uguali, le disparità sociali erano celate. Il battesimo ufficiale nel mondo delle diseguaglianze comincerà con la prima comunione. Il vestito per l’occasione era da sposina che s’incontrava con Gesù: tutta vestita di bianco e pura come un giglio. Quell’abito costoso, inutile dal giorno dopo, era la preoccupazione di ogni mamma. Se non poteva acquistarlo, doveva trovarne uno di seconda mano o in prestito, per non sfigurare rispetto agli altri. E poi c’era la festa per i parenti, abiti nuovi per gli altri familiari, cerimonie, esborsi che non tutti potevano permettersi. Sarà dal 1960 in poi che la Chiesa capirà che queste differenze sociali dovevano sparire. E da allora arrivò la tunica identica per tutti, maschi e femmine, fornita dalla parrocchia.

Ci pensavano comunque le mamme a distinguere le figlie di quelle che portavano il regalo alla maestra da quelle che non potevano farlo. L’attitudine al pettegolezzo, infatti, si ereditava dalle madri e noi bimbe imparavamo presto a notare queste differenze. Le comunità di una volta vivevano delle chiacchiere sulla vita altrui, disgrazie comprese. Il vicino che aveva un’altra donna, la figlia del farmacista che era incinta, il sagrestano che aveva un brutto male. Facevano parte di un interesse quasi benevolo verso la vita degli altri, una specie di cemento sociale.

Ora nelle città la gente non si conosce più, nemmeno nel proprio condominio e il pettegolezzo è diventato impossibile. Lo sostituisce quello mediatico di personaggi che vogliono diventare famosi dandosi in pasto alle riviste di gossip. Si sposano, divorziano e si risposano per ordine dell’agente.

In colonia invece ognuno portava i suoi vestiti da casa, seguendo una lista fornita per l’occasione. Ogni mamma attaccava pazientemente sui vari capi i tre numeri rossi assegnati, che staccava l’anno dopo e sostituiva con altri nuovi.

Per quelli che andavano in colonia, lo stato sociale era simile, tutte famiglie di ceto medio-basso con differenze minime. Invece le colonie ONIG (Opera Nazionale Invalidi Guerra) erano quasi di lusso: si era ammessi solo avendo il papà invalido (gran privilegio, eh!). Erano conosciute per essere più curate, in stabili più moderni, con bambini da tutta l’alta Italia, vitto migliore e gelato la domenica. Ogni bambino riceveva tutto il necessario per vestirsi, erano proprio divise, con lo stemma dell’associazione impresso dal cappellino per il sole, fino ai pantaloncini corti e la maglia per il freddo. Vestiti che erano lavati e stirati dalla stessa colonia e se perdevi una maglietta non facevano drammi.

Dopo aver letto “Rapporto da un villaggio cinese” di Jan Myrdal, m’innamorai di quel popolo che vestiva nello stesso modo e dove non c’erano differenze, donne e uomini con le tute o le casacche blu. Quando entrai in Provincia nel 1974, ognuno vestiva come voleva, più o meno adeguatamente. Molti uomini erano in giacca e cravatta, la divisa era per uscieri, vigili del fuoco, forestali, cantonieri. La parte femminile, nel giro di pochi anni, aveva trasformato la Provincia in passerella, con sfilate di gusto discutibile e spesso ridicole. Famosa diventò allora una consigliera che mandò a cambiarsi diverse impiegate con camicette trasparenti e minigonne inadatte. Io parteggiavo per lei, detestavo quelle esibizioni e auspicavo la divisa per tutti. Belli e brutti, di alto o basso grado.

Adesso che sono divisa anche come stato anagrafico, l’uniforme che meglio mi rappresenta è il pigiama, diventato segnale ed espressione di riconoscimento.

Ne possiedo qualche dozzina, per ogni stagione e stato d’animo. Ed esiste un istante di somma pigrizia, nel pomeriggio della domenica, in cui passo dall’essere ancora in pigiama all’averlo già indossato.

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