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La polveriera Pakistan

Le tormentate vicende di un paese diventato teatro di una guerra “per procura” fra Iran e Arabia Saudita.

Mentre Iran e USA continuano a dialogare, tra difficoltà e intrusioni di “consiglieri” interessati (Arabia Saudita e Israele in primis) per portare avanti e sviluppare il faticoso accordo raggiunto in novembre a Ginevra, che sta ridisegnando tutti gli equilibri e gli scenari del Medio Oriente, in altre parti del mondo islamico covano problemi ancora insoluti e forse si prospettano autentiche (brutte) sorprese. Mi riferisco soprattutto all’Asia Meridionale (Pakistan, India, Bangladesh), che con oltre mezzo miliardo di musulmani è il vero baricentro dell’Islam odierno. Il suo cuore è il “Paese dei Puri”, che è il significato letterale di Pakistan, creato dagli inglesi nel secondo dopoguerra per dare una patria a tutti i musulmani dell’ex-India britannica. Dono avvelenato, come ben si sa, a partire dalle stragi reciproche tra indù e musulmani all’epoca della spartizione tra il 1947 e il ‘48. E che continua a produrre veleni ancor oggi. Vediamone le ragioni.

Le “tribal areas” alla frontiera con l’Afghanistan, in cui il governo pakistano praticamente non mette piede lasciandole in mano a bande di taliban che scorrazzano al di là e al di qua della frontiera; la vicinanza all’Iran, con cui il Pakistan condivide una frontiera tormentata dall’irredentismo dei baluchi, un popolo senza patria che parla l’omonima lingua di ceppo iranico; una situazione interna caratterizzata da un ormai stabile conflitto settario tra sciiti (il 20% della popolazione) e sunniti: sono tutti elementi che hanno fatto parlare spesso della “polveriera pakistana”, un paese che gli USA sospettano peraltro di essere il retrovia dei talebani afghani e con cui nondimeno mantengono rapporti ufficiali di alleanza politica e militare.

Eppure il Pakistan, una nazione tra le più giovani che siedono nel consesso delle nazioni, era nato da un grande ideale: fornire rifugio a tutti i musulmani di origine indiana senza distinzione di confessione (sciita o sunnita). Il suo fondatore Jinnah, compagno di Gandhi nella lotta anti-britannica, era sciita; il suo grande vate, il poeta Iqbal, era sunnita; e sunniti e sciiti si sono alternati negli anni alla guida del paese e delle forze armate - queste ultime un corpo separato che è il vero potere forte.

Le cose sono filate abbastanza lisce sino agli inizi degli anni ‘80, quando, a seguito della rivoluzione iraniana del 1979, la propaganda sciita si radicalizza e per reazione innesca una consistente reazione sunnita. Anche l’Arabia Saudita, intervenendo in funzione anti-Iran, comincia ad appoggiare finanziariamente il sunnismo più militante con elargizioni per la costruzione di moschee e madrase. Questa radicalizzazione in verità era iniziata anche prima della rivoluzione iraniana: responsabile Zia ul-Haq, il generale che con un colpo di stato nel 1977 aveva defenestrato e fatto impiccare il presidente Bhutto del PPP (Pakistani People Party) e, per legittimarsi, si era presentato poi come paladino della lotta alla corruzione e “soldato dell’islam”, favorendo soprattutto la parte sunnita e la Lega musulmana del Pakistan. Si arriverà presto, in un crescendo di tensioni, alla formazione di milizie su base settaria: lo sciita TJP (Tehrik-e Jefria Pakistan), nato proprio nel 1979, e il sunnita SSP (Sipah-e Sahaba Pakistan), costituitosi nel 1985, che alimentano un feroce confronto sfociato in attentati e omicidi mirati dei capi della fazione avversa.

Il cancro del settarismo religioso intraconfessionale non si ferma più e verso la metà degli anni ‘90 porterà alla formazione di vere e proprie milizie armate nei due campi, due metastasi inarrestabili che stanno gradualmente sfasciando il paese. Il Pakistan diventa un campo di scontri settari sempre più violenti, con attentati alle moschee sciite subito ricambiati con stragi nelle moschee sunnite, e solo un nuovo colpo di stato nel 1999, questa volta del generale Musharraf, porta a un primo energico tentativo di porre argine alla deriva fondamentalista.

Musharraf instaurò una dittatura militare - che portò all’espulsione del Pakistan dal Commonwealth - e iniziò una lotta senza quartiere contro le milizie armate delle due fazioni, accanendosi però soprattutto contro la fazione sunnita, che nel frattempo andava pericolosamente avvicinandosi a quei taliban afghani che poco dopo, dal 2001, daranno rifugio a Osama bin Laden.

Qui comincia la storia dei sospetti degli USA su una parte almeno del SIS, i servizi segreti dell’esercito pakistano, che appoggerebbero anche finanziariamente i taliban afghani, agendo come un ulteriore corpo separato nell’esercito di Musharraf. Questo clima, avvelenato dalla quasi guerra civile interna e dalle trame del SIS, dura fino al 2007, quando Musharraf è costretto alle dimissioni anche a seguito dei sospetti di suo coinvolgimento nella morte di Benazir Bhutto, che era tornata nel frattempo dall’esilio in Pakistan per le elezioni che dovevano porre fine alla dittatura militare e l’avrebbero vista probabilmente vincitrice. Dopo un governo 2008-13 di Zardari del PPP, vedovo della Bhutto e filo-sciita, con libere elezioni è tornata al potere nel 2013 la Lega Musulmana del Pakistan.

Il cambio di potere segna una sorta di rivincita della fazione sunnita, duramente repressa dal “laico” generale Musharraf, perché il nuovo premier Nawaf Sharif, che durante la dittatura di Musharraf era andato in esilio nell’Arabia Saudita, divenendo lui stesso un simpatizzante fondamentalista wahhabita, si appoggia a un partito che nel frattempo era andato sempre più avvicinandosi alle predette fazioni sunnite radicali, contigue ai taliban afghani.

Il risultato? Dalle 600 vittime di terrorismo del 2010 si è passati alle oltre 4000 del 2013.

Una guerra impossibile

Come si vede, una situazione intricata, ma le cui linee di fondo sono abbastanza chiare: Il paese è divenuto teatro di una guerra per procura tra Iran e Arabia Saudita che hanno alimentato per lungo tempo le fazioni sciite e sunnite, sullo sfondo della guerra degli americani al terrorismo dei taliban in Afghanistan. Quegli stessi taliban di cui si dice che molti “cervelli” sono cresciuti nelle madrase sunnite pakistane, costruite con i soldi sauditi e la protezione di parte almeno dell’establishment politico-militare pakistano. Il quale ufficialmente non ha mai contestato l’alleanza con gli Stati Uniti in funzione anti-terrorismo, ma che ha subito l’incredibile azione dei commandos americani che il 2 maggio 2011 catturarono e uccisero Bin Laden nascosto a Abbottabad in Pakistan, guardandosi bene dall’avvertire preventivamente i vertici militari dell’ “alleato”.

Quest’ultima azione ha segnato un punto di svolta psicologico nel paese, che si è sentito umiliato. L’antiamericanismo è salito alle stelle e anche il tentativo saudita di mandare a monte un accordo tra Iran e Pakistan per costruire una redditizia pipeline destinata a portare gas iraniano in India, sembra destinato a fallire. Nel frattempo la giustizia ha fatto il suo corso e di recente Musharraf è stato ufficialmente incriminato per il complotto che portò alla morte di Benazir Bhutto.

Dopo il fallimento dei militari e quello dei politici, è emerso in Pakistan in questi ultimi anni un ulteriore “corpo separato”, quello dei giudici, che sembrano fortemente e coraggiosamente determinati a riportare il paese nel solco della legalità e dello stato di diritto. Il paese, dilaniato dalle lotte sopra descritte, ne ha bisogno davvero, anche perché con i suoi 180 milioni di abitanti è il secondo paese musulmano del pianeta e perché, soprattutto, è l’unica potenza nucleare del mondo islamico. Periodicamente la CIA mette in guardia sul pericolo che il fondamentalismo vada al potere in un paese instabile e che dispone della bomba atomica...

E non a caso il Pentagono avverte da tempo che il vero problema nell’area non è l’Afghanistan con i suoi 20 milioni di abitanti e profughi, bensì la sua immensa e incontrollabile retrovia: il Pakistan. Dove un intervento militare USA è impossibile: un paese di 180 milioni di abitanti nessuna potenza occidentale potrebbe permettersi di invaderlo, tantomeno di controllarlo con operazioni di peace-keeping. Le altre due grandi potenze vicine, l’India e la Cina (grande cliente del petrolio iraniano), lo sanno bene e mantengono un profilo di grande prudenza sul Pakistan, anche se l’India appoggia discretamente la fazione sciita nella convinzione di poter mandare a buon fine i suoi affari con l’Iran...

Si può solo sperare che il fuoco dei settarismi religiosi, alimentato dal combustibile fondamentalista e dai giochi spregiudicati dei paesi vicini, possa essere spento prima di diventare un incendio dalle proporzioni inimmaginabili, che farebbe impallidire quello che da tempo divora l’Afganistan. Qualche segno positivo c’è: l’ansia di legalità ha preso piede, il ristabilimento di libere elezioni dopo la dittatura sembra solido. Basterà?