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Il filo della memoria

Paolo Dalponte, Il filo del ricordo

Ogni anno, a ridosso della Giornata della Memoria, i miei pensieri si fanno cupi, si gonfiano di aria gelida e rabbuiano il cielo. Inutile imporsi di non ascoltare ennesimi particolari che aggiungano altro orrore alla tragedia della quale ogni uomo si sentirà comunque connivente. Come un cane da tartufi fiuto nuove testimonianze, come un sonar capto inedite documentazioni che, pur essendo passati settant’anni, sommano l’indicibile all’inguardabile. Recentemente è rispuntato un documentario, girato da militari inglesi e russi, alla cui registrazione contribuì niente meno che Alfred Hitchcock. Noi teneri di cuore, preso atto della settimana che gli servì per riprendersi, avremmo preferito sapere che il maestro del brivido si rifiutò di apporre la sua firma. Ho scoperto ieri l’Omocausto, che condusse alla morte oltre 13 mila omosessuali; la triste storia dei sette nani Ovitz ad Auschwitz. Il famigerato programma Aktion T4 con il quale furono uccise 70.000 persone con disabilità; la storia dell’unico uomo che scelse volontariamente di andare ad Auschwitz per aiutare i prigionieri a evadere, facendosi però sopraffare dall’inferno.

Rigorosamente e vilmente tengo sempre gli occhi chiusi, il coraggio per sopportare l’orrore delle immagini non si acquista invecchiando. Al dolore per una delle più atroci tragedie della Storia, alla frustrazione per non esser stati capaci di insegnare ai giovani a non dimenticarle, si unisce talora l’afflizione per le piccole, ma non meno penose tragedie personali, la perdita di testimonianze concrete della propria vita passata. A oblunghe e copiose lacrime che rotolano a valle, si aggiungono allora altre lacrime inutili, perché tutta questa ipersensibilità affatica il mio fisico già provato. Lacrime pensanti che vorrebbero oggi, come ricevuta di ritorno, l’infanzia dei miei bambini per addolcire il clima da tormenta di neve sulle rotaie di un treno blindato. Se non conservo più niente della loro infanzia, come potrò estrarre da un cassettino della memoria e della credenza, le loro tutine di spugna? Le calde babbucce di lana fatte dalla nonna, il primo dentino da latte caduto, i succhiotti colorati e il primo paio di occhiali da vista... per quale camino saranno passati?

L’album di fotografie del nostro matrimonio - d’accordo, finito amaramente - ma che diritto ha il coniuge più rancoroso di buttare tutto in discarica? C’è la foto di mio padre che mi accompagna all’altare con espressione guardinga, che è un delitto non riavere più. Perché? Il corredo ricamato con amore, precisione e tantissimo lavoro da mia madre... in quale pattumiera sarà finito? Quale letto estraneo ne sfoggerà il pizzo macramè? Le “fasi lunari”, artistico quadro realizzato con le mie operose e incredule mani per tanta precisione e bellezza, in quale muro di capolinea metropolitana lo rivedrò mai un giorno?

Le dichiarazioni d’amore di Matteo e Alessandra bambini, che nei disegni raffiguravano una famiglia felice in una casetta con tendine alle finestre, fiori in giardino, rondini che volavano e il sole più grande che c’era. La valigetta blu di cartone di Fiorucci con la quale Matteo andava a dormire dai nonni, portandosi giochi e colori per disegnare. Le bambole di Alessandra, i suoi disegni e peluche insieme alla loro infanzia che non tornerà più.

Dove sono, le prove del mio impegno di esser stata madre dedita e capace, perché la fine di un matrimonio non sia dichiarazione d’incompetenza?

Un divorzio diventa distruzione, quando sancisce la fine di quel progetto di vita iniziato insieme nel bene e nel male, nella buona e cattiva sorte, eccetera. Quando tutte le prove di un passato insieme sono eliminate, bruciate, rimosse... buttate via, non da me, insieme ai ricordi sgradevoli.

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