Una guerra buona per tutti gli usi
Intervista allo storico Quinto Antonelli sulle interpretazioni e le strumentalizzazioni che si sono succedute nel corso di un secolo
A metà gennaio si è aperta l’attività annuale della Società di Studi Trentini di Scienze Storiche, con una relazione di Quinto Antonelli dal titolo “Ricordare la Grande Guerra. Riflessioni all’alba del centenario”. La relazione dello storico, dopo circa un’ora di silenzio teso e partecipe, è stata accolta da un’ovazione: cinque minuti di intensi applausi, che a teatro se li sognano, e nella Sala Fbk di via Santa Croce probabilmente mai ci sono stati.
Il fatto è che Antonelli (che, ricordiamolo, è stato fecondo collaboratore di Questotrentino, con la rubrica “Blocco-notes di un maestro di campagna” negli anni 80, e in “ProMemoria” in anni più recenti) è andato a toccare un’area critica del bagaglio culturale delle persone, in particolare dei trentini: la valutazione della Grande Guerra. Un momento storico soggetto a interpretazioni e celebrazioni forzate, talora scomposte, sempre funzionali alla cultura politica del momento, ed estremamente divergenti, tra loro, ma anche spesso rispetto a una lettura più critica, che nonostante tutto si è andata sedimentando. In questo contesto l’intervento di Antonelli, tanto rigoroso quanto appassionato e polemico, è apparso - su un tema cruciale, la guerra - la rivincita dello studio, della razionalità, dell’onestà, sulle varie propagande di regime e le abitudinarie sottoculture da esse generate. Di questo discutiamo con Antonelli.
Parliamo delle varie - interessate - interpretazioni della Grande Guerra. La prima è stata quella che lei definisce “risorgimentale”, diffusa subito dopo l’annessione all’Italia, nel ‘19. E riproposta anche negli anni ‘50 e ‘60.
All’indomani dell’annessione del Trentino e del Sudtirolo all’Italia, dall’immenso e terrificante contesto della guerra mondiale viene isolato il conflitto che oppone l’Italia all’Austria interpretato come “quarta guerra di indipendenza”, “guerra di redenzione”. Al Museo della guerra di Rovereto, sorto nel 1921, e soprattutto, al Museo del Risorgimento di Trento, viene affidato il compito di celebrare “il buon diritto italiano” e la “Vittoria” come compimento di un lungo processo di natura risorgimentale che riscattava anche i trentini, dopo i lombardi e i veneti, dalla dominazione austriaca. Vie e piazze vengono intitolate ai caduti dell’esercito italiano e la scuola di ogni ordine e grado è investita del compito di mostrare la redenzione in atto: l’omaggio alle lapidi commemorative, la visita alla “Fossa dei Martiri”, il pellegrinaggio ai piccoli cimiteri di guerra, la salita ai sacri monti della patria. Sono tante e tali le manifestazioni patriottiche che Silvio Flor, deputato socialista al parlamento italiano, non esita a definirle “un’ubriacatura” nazionalista. Di più: nella seduta del 7 giugno 1922 denuncia, piuttosto ruvidamente, che “nelle nuove provincie sono più i giorni in cui sventola il tricolore, di quelli in cui non sventola: le feste si susseguono alle feste, ed i genitori si domandano se gli scolari siano destinati ai cortei o alla scuola”.
Poi venne l’appropriazione fascista della Grande Guerra e della figura di Battisti. Con quali differenze rispetto all’interpretazione risorgimentale dell’Italietta del ‘19?
Con il fascismo la memoria pubblica si fa monumentale: una “montante marea di pietra” la definisce Mario Isnenghi. Lo smantellamento dei piccoli cimiteri di guerra, sorti a ridosso dei luoghi dei combattimenti, porta alla costruzione dei giganteschi edifici che conosciamo, gli ossari del Grappa e del Montello, il cimitero di Redipuglia. Nel Trentino la campagna monumentale del fascismo finisce per “nazionalizzare” definitivamente il territorio: si pensi all’ossario di Rovereto e ai sacrari che sorgono sui confini (dal passo Streva al Tonale, allo Stelvio, al passo Resia) quali simboliche sentinelle della patria. Mentre a Bolzano, il 12 luglio 1928, nel decennale della fine del conflitto, viene inaugurato il Monumento alla Vittoria, che agli occhi della popolazione di lingua tedesca appariva (e appare) come il simbolo più evidente e più eloquente della forzata italianizzazione del Sudtirolo.
Sul Dos Trento, il 26 maggio 1935, alla presenza del re Vittorio Emanuele III, viene inaugurato il monumento a Cesare Battisti, nel tentativo di inserire nel pantheon dei precursori del fascismo anche l’uomo politico trentino (“A Cesare Battisti che preparò a Trento l’unione alla patria ed ai nuovi destini” recita la scritta che corre sul monumento). Ma preme aggiungere che l’appropriazione indebita incontrerà un ostacolo quasi insormontabile nella fermissima opposizione della vedova di Battisti, Ernesta Bittanti, che riuscirà, almeno in parte, ad arginare la strumentalizzazione.
I Kaiserjäger, i 55.000 trentini arruolati nell’esercito austroungarico, furono chiaramente eliminati dal ricordo.
Durante il regime fascista la memoria dei trentini, coscritti in divisa austriaca, che combatterono in Galizia o, peggio, sul fronte meridionale contro l’esercito italiano, che a fatica potevano rientrare nella rappresentazione di un popolo in attesa della redenzione, verrà del tutto rimossa e rimarrà semmai confinata nella tradizione familiare. Perfino il ricordo dei caduti venne relegato all’interno dei cimiteri. Vale la pena rileggere ciò che scriveva a questo proposito il quotidiano liberale “La Libertà” il 28 ottobre 1922: “I nostri concittadini morti nella divisa del soldato austriaco non sono né voglion essere oggetto della nostra gratitudine e non potrebbero in nessun modo venir proposti alla venerazione e all’imitazione delle generazioni future. Essi non sono al contrario che degli infelici che la guerra trasse a morire in terra straniera e per una causa che non era la loro; e meritano quindi (ahimè!) non lode e plauso, ma un compianto e commiserazione, pressappoco come le vittime di qualche grande infortunio, fuoco o inondazione, colera o terremoto. Se è doveroso e gentile il ricordare questi nostri fratelli disgraziati, non v’è dubbio che non possiamo dedicar loro che lapidi funerarie e monumenti sepolcrali o cenotafi da erigersi nel luogo dedicato ai trapassati, il cimitero. Ben vengano questi pii ricordi ad abbellire i nostri sacri recinti, [...] ma si riservino le piazze per i benefattori della patria e dell’umanità”.
La vulgata dei trentini austriacanti
Le successive celebrazioni austriacanti, esalteranno i Kaiserjäger, proposti come esempio di contiguità popolare all’impero. Ricordo l’appello alla mobilitazione di Francesco Giuseppe, che iniziava “Ai miei popoli...”: paternalistico, eppur probabilmente efficace. Quale era l’adesione all’Impero dei ceti popolari?
Una sbrigativa (e caricaturale) vulgata dipinge i ceti popolari trentini come degli orgogliosi tirolesi, fedeli in toto agli Asburgo. Ma non è così. La società trentina d’anteguerra è percorsa da fratture ideologiche, segnata da culture politiche contrapposte. Si pensi al partito socialista e a quello popolare, ricchi oltretutto al loro interno di posizioni diverse rispetto alla questione nazionale, che spesso si intrecciava con quella sociale. La larga emigrazione temporanea in Tirolo e nel Vorarlberg, ad esempio, portava migliaia di trentini a sperimentare la condizione di minoranza, di sudditi mal tollerati e spesso disprezzati, oggetto di un radicato pregiudizio etnico.
Certo, soprattutto tra il ceto contadino esisteva e trovava modo di manifestarsi un certo spirito patriottico. Molti di questi avrebbero senz’altro sottoscritto le parole che un certo caporale Spagnolli, nel giugno del 1916, interrogato dal comandante della compagnia circa le sue simpatie per l’Italia, ebbe a dire: “Nessun trentino desidera cambiar governo, per riguardi materiali sarebbe per noi una disgrazia. Dal canto mio [...] ho pianto quando fu incominciata la guerra l’agosto del ‘14 benché credevo di non dover andare sul campo, ma pensavo alle grandi rovine che arreca”.
Le centinaia di diari e di memorie scritti dai combattenti nel corso del conflitto tornano ripetutamente a ricordare i giorni della dichiarazione di guerra e della partenza sempre con profonda costernazione, con amarezza, con un opprimente senso di morte.
La ripulsa della guerra crebbe quanto mai radicale nei reparti costretti alle disumane condizioni della trincea. Lo fu altrettanto nella guerra in montagna?
La scelta di portare il conflitto sulle vette delle montagne, com’è stato riconosciuto dagli storici più avveduti, fu dettata dalla folle onnipotenza delle gerarchie militari. Il risultato fu un paradosso: lo spazio alpino venne trasformato in un paesaggio artificiale e tecnologico, attraversato da linee telefoniche, teleferiche e funivie, condotte d’acqua, strade che salivano fino alle quote più alte. Baraccamenti e fortificazioni finivano per urbanizzare e riempire uno spazio che per millenni era stato vuoto. Di contro le condizioni di vita dei soldati subiscono un processo di radicale regressione: i combattenti si percepiscono e si descrivono come “trogloditi”, come uomini delle caverne ricoperti di sporco e di pidocchi; i loro ripari sono “tane” di animali, i loro diari si riempiono di note elementari: “vento e neve”, “freddo ai piedi”, “bagnato”, “mal di testa”, “forte tosse”, “male allo stomaco”. Se provano a riflettere più ampiamente è solo per constatare, con una certa incredulità, a quali livelli di degrado e di miseria ci si possa ridurre.
Con l’annessione del Trentino al Terzo Reich nell’autunno del ‘43, la lettura della Grande Guerra cambiò radicalmente di segno.
Con l’istituzione dell’Alpenvorland e la conseguente politica di assimilazione del Trentino, il passato asburgico del Trentino viene dissepolto e variamente valorizzato. I due musei storici, con le loro testimonianze d’italianità, vengono chiusi, mentre la tradizione militare dei Kaiserjäger e degli Standschützen è ripresa nella creazione del Corpo di Sicurezza Trentino che recluterà circa 3.000 giovani trentini in età di leva. Inoltre, nel recupero e nell’attivazione delle memorie e delle nostalgie asburgiche, un ruolo preminente è affidato ai reduci decorati della prima guerra mondiale. Agli ex combattenti trentini in possesso di decorazioni austriache al valore, il commissario supremo Franz Hofer, nel giugno del 1944, assegna un vitalizio con valore retroattivo a partire dal 29 settembre 1943. Con ciò intende soprattutto riabilitare un’appartenenza e un’esperienza di guerra a lungo negate, rimosse, forse anche pubblicamente disprezzate. Un’abile mossa propagandistica ai fini di ottenere il consenso della popolazione, non c’è che dire!
La Grande Guerra 50 anni dopo
Arriviamo al dopoguerra. In cosa differì la vulgata di allora, dei tempi della Dc, da quella del ‘19? A me, a quei tempi giovane studente, già allora sembrava un’interpretazione retorica quando non bolsa, verso la quale, prima ancora del ‘68 nutrivo una sostanziale insofferenza. Non era una riproposizione stanca, stantia?
Permane negli anni Sessanta, rilegittimata, l’interpretazione risorgimentale della guerra. Il cinquantesimo anniversario si avvia, infatti, solo nel maggio del 1965 a ricordare e a “celebrare” la guerra italiana. Le commemorazioni che si svolgono nel Trentino tra il 1965 e il 1968 (manifestazioni patriottiche, riunioni, discorsi ufficiali, canti, messe, mostre militari) dovevano certamente apparire agli occhi di un giovane sveglio e colto ripetitive e svuotate di senso e di verità. Eppure quelle iniziative si tengono in un clima di grande fervore e partecipazione popolare. I promotori, gli attori, i celebranti sono soprattutto gli alpini italiani e trentini, molti dei quali reduci della seconda guerra mondiale. Benché figli dei vecchi Kaiserjäger, gli alpini trentini sono portatori di un’altra memoria dai caratteri, ora, indubbiamente italiani, sagomata intorno all’epica alpina (spirito di corpo, senso della patria e del dovere, rispetto per le gerarchie) sorta all’indomani della Grande Guerra e rifondata nel corso della seconda guerra mondiale. Ciò che vorrei rilevare è che la memoria dei combattenti trentini sul fronte orientale del 1914 viene soppiantata dalle narrazioni nazionali della generazione dei figli, combattenti a loro volta nella Russia del 1941-43.
Poi ci fu il ‘68, e in particolare la contestazione a Saragat da parte degli studenti di Sociologia.
L’enfasi posta sulla “Vittoria” si scontra nel 1968 con la contestazione degli studenti che riportano l’attenzione sulla dimensione luttuosa della guerra. Un capovolgimento di prospettiva che prendeva le mosse sia dalla nuova storiografia (la storia militare di Rochat, i “vinti di Caporetto” di Isnenghi, i tribunali militari di Forcella-Monticone), sia dal crescente sentimento antimilitarista che proponeva, tra l’altro, l’obiezione di coscienza al servizio militare. In tutto questo non mi sembra però che le iniziative degli studenti di sociologia siano state né decisive né rilevanti. Concentrati sulla loro “azione esemplare”, che doveva bloccare il corteo del presidente Saragat, per poi contestare la destinazione dei fondi statali erogati per la costruzione di un auditorium, i sociologi perdono di mira l’obiettivo più generale, proprio le celebrazioni della Grande Guerra. Di diverso segno sono invece le iniziative degli studenti medi e dei circoli giovanili della regione. A Bolzano gruppi giovanili come “Die Bruder - Fratelli” e legati alla rivista “Die Brücke”, animata da Alexander Langer, avviano una riflessione, estesa anche alla cittadinanza, sulla natura e i costi della Grande Guerra e delle guerre in generale. A Trento i liceali del Prati riprendono gli scritti di don Milani (le lettere ai cappellani militari e ai giudici). A Rovereto il movimento studentesco fa suo un volantino del gruppo cattolico di Bolzano “Die Bruder - Fratelli”, radicalmente antimilitarista, che rifiuta la retorica della Grande Guerra e l’artificioso collegamento con la Resistenza, denuncia gli interessi economici dell’industria bellica e non intende riconoscersi in una Chiesa che si fa complice dei “signori della guerra”.
Sempre a Rovereto, il gruppo giovanile “Nuova Sinistra” commemora il 3 novembre con una conferenza dissacrante di Mario Isnenghi, autore l’anno prima dei “Vinti di Caporetto”.
La visione sessantottina, evidentemente schematica, venne ripresa e superata dagli studi successivi. In particolare da Mario Isnenghi e dal gruppo di studiosi roveretani di “Materiali di lavoro”, di cui lei faceva parte. L’attenzione passò dagli eventi bellici agli episodi di rifiuto della guerra; e poi alla vita e cultura dei soldati, e alle modificazioni culturali indotte dalla guerra.
Evidentemente doveva toccare alla generazione dei nipoti, alla fine degli anni ‘70, riscoprire, studiare e valorizzare la memoria dei 55.000 trentini arruolati nell’esercito austroungarico e, più in generale, le vicende di un popolo scomparso sui campi di Galizia, nelle lande desolate della Siberia, nelle città di legno dei profughi, nei luoghi di internamento. A distanza di trent’anni la ricerca avviata dalla rivista “Materiali di lavoro” e proseguita da riviste di valle, gruppi culturali e ripresa infine dai due Musei storici, fu di enorme importanza. La “scoperta” dei diari, delle lettere, delle memorie dei soldati, dei civili, dei profughi in tempo di guerra ebbe un effetto “copernicano”. Collocò la guerra dei trentini nel contesto della guerra europea del 1914-1918 dispiegando una vasta mappa plurilingue e plurietnica. Le vicende dei trentini venivano ad intrecciarsi con quelle di altre nazioni, popoli, culture.
Inoltre i testi dei soldati testimoniavano la crisi dei valori più tradizionali, lo scioglimento delle antiche fedeltà che l’esperienza del campo di battaglia aveva provocato. Ci parlavano del prima e del dopo e quindi anche dei faticosi processi di adattamento culturale, di assimilazione di concetti e significati nuovi, di mondi sconosciuti. Meno dell’identità nazionale o del patriottismo, più della violenza praticata e subita, della mostruosa fatica quotidiana, del lavoro coatto, dei tempi scanditi dalla violenza, dal terrore e dalla morte.
Alla scoperta, allo studio, seguirono l’edizioni dei testi, i convegni, le mostre. Come ebbe a scrivere Fabrizio Rasera, uno degli artefici di questo nuovo corso storiografico, le tante e diverse operazioni editoriali non rimasero confinate nel recinto di pochi studiosi, anzi furono recepite da un pubblico di lettori piuttosto ampio, furono considerate “come concorso alla conservazione dell’identità culturale del paese e della valle e come riconquista di una relazione tra le generazioni all’interno di un delimitato ambito territoriale. Si potrebbe azzardare, almeno come suggestione, l’ipotesi che ci troviamo di fronte ad un nuovo tipo di monumento. Statue nelle piazze se ne costruiscono ormai raramente e la memoria degli eventi e degli uomini contemporanei è affidata ad altri segni. Forse queste amorose edizioni di scritti delle esperienze di guerra e di vita della generazione dei padri e dei nonni tendono a rappresentare una nuova forma della memoria istituzionale e collettiva”.
Una nuova retorica nazionalista
Con l’avvento del Patt al governo ci sono state, anche recentemente, delle scomposte glorificazioni dei Kaiserjäger, e in parallelo delle rivisitazioni insultanti della figura di Battisti. Siamo sempre alla storia che viene riletta a ogni cambio di assessore? In compenso adesso si parla, per il centenario 1914-2014, di “celebrazione” della Grande Guerra.
Nella prolusione del 13 gennaio ero partito dalle esternazioni del deputato Mauro Ottobre sul “Battisti traditore” e dal dibattito che ne era seguito per svolgere alcune riflessioni sulla semplificata rappresentazione della guerra promossa dai nostalgici del Tirolo storico. Ma non è cosa di oggi. Ciò che, in questi tempi, semmai colpisce è l’aggressività degli interventi, l’autoreferenzialità che esclude decenni di ricerca storica (senza altri aggettivi), l’isolamento culturale, e nel merito la riproposizione di termini come “patria”, “eroi”, “orgoglio identitario”. La loro narrazione sembra sostenersi, in definitiva, su un semplice meccanismo sostitutivo: gli eroi della tradizione nazionalista, i volontari trentini nell’esercito italiano, sono sostituiti dai Kaiserjäger, veri eroi popolari; all’Italia subentra il Tirolo e l’Austria; al re Vittorio Emanuele III l’imperatore Francesco Giuseppe. Non siamo tanto distanti da una nuova retorica nazionalista e populista. Verrebbe da invocare un nuovo sessantotto.
Nella sua relazione lei ha espresso un giudizio negativo sui tanti piccoli musei che espongono manufatti e reperti bellici, in un’ottica che vorrebbe mescolare storia, folklore e turismo. Lei parla di “banalizzazione della guerra”. Vuole spiegare cosa intende?
Riprendo il termine “banalizzazione” dal volume di George Mosse sulle guerre mondiali e il mito dei caduti, ovvero sulle forme che storicamente ha assunto il ricordo della morte di massa. Banalizzare la guerra - scrive Mosse - significa ridimensionarla, ridurla a qualcosa di ovvio e comune, spogliarla di quanto ha di terribile. È un’operazione che serve a mascherare la guerra, a controllarla, a dominarla, a renderla familiare.
E dunque un rischio di banalizzazione mi sembra di ritrovarlo nell’entusiasmo ingegneristico posto nel recupero massivo di trincee, di forti e di altri manufatti militari, nella inquietante bellezza dei luoghi, nella loro suggestione “romantica” e, infine, nel loro inserimento nei circuiti turistici.
Quanto ai piccoli musei, nella prolusione mi chiedevo quale verità poteva comunicare l’ammasso di reperti bellici rastrellati nelle zone di guerra e messi lì in bella mostra. Mi rifacevo, in particolare, ad una pagina di Guido Ceronetti che a sua volta si chiedeva che cosa aveva a che fare un museo della guerra con la guerra che è ritorno al Caos, dove “tutto è sporcizia, escrementi e cadaveri scoperti”.