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Orchestra Haydn e altro

II frac e le scarpe da ginnastica

Avete mai visto un’orchestra dall’alto, quasi come la steste sorvolando? Come se le doveste fare una foto aerea e lei fosse proprio sotto di voi? Certo, forse il suono vi arriverebbe un po’ “strano”, dilatato e sfocato, ma sarebbe un’interessante nuova prospettiva di fruizione e osservazione. Per l’ultimo appuntamento dell’edizione 2013 il festival altoatesino di cultura contemporanea “Transart” ha deciso di venire nel nuovo, scintillante gioiellino trentino, il MUSE, con un progetto dalle sfaccettate componenti e dove il titolo dell’opera di Bernhard Gander, “Melting Pot”, è già tutto un programma.

Sul palco, o meglio, nel grande atrio del Museo delle Scienze progettato da Renzo Piano l’Orchestra Haydn in grande organico è rimpolpata per l’occasione dagli studenti dei conservatori di Trento e Bolzano, a dividersi la scena - è proprio il caso di dirlo - con la cultura free style di cinque breakdancer, uno spettacolare beatboxer (la beat box, molto in voga negli ultimi anni nella cultura hip hop, è la tecnica con cui si riproducono e imitano con bocca, naso e gola i suoni di cassa, rullante e altre percussioni), un dj, due poetry slammer (i poeti hip hop), tre rappers e i video di Super Drooper.

I timbri orchestrali di archi, legni, ottoni e percussioni restano compatti e distinti, quasi esclusivamente con funzione di linea ritmica, diventando il supporto, lo stereo portatile di questi ragazzi dai pantaloni con il cavallo ormai alle caviglie che a turno scratchano, rappano, restano in equilibrio su una mano sola e... si divertono.

Ma se quell’induzione motoria che è l’aspetto più marcato di qualsiasi evento musicale ritmicamente molto connotato faceva muovere parecchie teste del pubblico insieme a quelle dei rappers, l’energia della beat box, che in realtà dettava la pulsazione all’orchestra, lasciava impettiti e seri i professori, tesi e attenti solo a eseguire a puntino la loro parte. Dall’alto delle balaustre dei tre piani che danno sul grande atrio dove si trova il pubblico si nota allora la linea, seppur immaginaria, che divide un mondo musicale dall’altro: così, mentre da una parte ballano i breakdancer o declamano i poetry slammer, c’è chi dall’altra, tra le file degli orchestrali, indica al compagno di leggio le battute in esecuzione con l’archetto del violino, chi con aria tesa e preoccupata non stacca mai gli occhi dalla partitura per non lasciarsi distrarre dalla... musica, chi dà di gomito al vicino per chiedere aiuto, visto che si è perso parecchie righe sopra.

È mancata forse una condivisone di spirito della performance nelle due componenti, free style e classica, e l’aspetto e lo stile libero e ludico della prima non è riuscita a smuovere la rigidità paludata della seconda. A volte abbiamo l’impressione che circoli ancora la convinzione, soprattutto tra i musicisti classici, che ci siano musiche di serie A e di serie B e che dovrebbero restarsene ben distinte. Invece questa miscellanea di stili così tanto diversi, anche per contesto, età e fruizione, ci è piaciuta: bastava per una volta prendere le cose meno seriamente e con più leggerezza.