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QT n. 3, marzo 2012 Cover story

Trento, quale storia?

La storia della città e del territorio: gli studi, la divulgazione, le “aree grigie” poco indagate, le ingerenze del potere

Ha suscitato un qualche dibattito la nostra recensione (critica) del volume “Storia di Trento dall’antichità all’età contemporanea”. Un testo evidentemente frutto di assidui lavori di ricerca, ma a nostro avviso con dei limiti, sia nelle qualità divulgative (spiegare senza annoiare), sia nell’offrire sintesi, interpretazioni complessive del momento storico, dando un senso ai tanti dati che si riportano.

Da qui lo spunto per una riflessione più ampia sulla divulgazione della storia di Trento e del Trentino, sul senso che diamo alle nostre città e al territorio, e più in generale sullo stato dell’arte dei nostri studi storici. A discutere di questo abbiamo chiamato Franco de Battaglia, giornalista, già direttore dell’Alto Adige, ed autore di diversi testi divulgativi, Diego Quaglioni, ordinario di Storia del diritto, e Giuseppe Albertoni, docente di Storia Medioevale, entrambi dell’Università di Trento, e autori entrambi di diverse pubblicazioni in campo storico (e di Quaglioni ci preme ricordare gli importanti studi sul caso del Simonino e la persecuzione degli ebrei nella Trento del 1400).

Partiamo dal nostro libro per allargare il discorso: come viene fatta oggi la divulgazione della storia?

Quaglioni: Il libro è onesto, opera di storici che conoscono il loro mestiere, che cercano di dare un’immagine aggiornata della storia della città. Se ci vedo un limite è nella convenzionalità delle interpretazioni, dovuta probabilmente al fatto che il lavoro non è unitario; spaziando dall’antichità romana ai giorni nostri, l’oggetto cambia, è molteplice. Spesso nella divulgazione ci si aspetta di trovare nella città di ieri le risposte alla città di oggi, ma è sbagliato, l’attuale mondo urbano non è la città di una volta. Trento nella storia è città perché sede del seggio vescovile, mentre il mondo italiano è fatto di città in senso moderno, in quanto protagoniste, con istituzioni proprie, centri di finanza con le banche, di cultura con le università, di commercio e produzione di beni. A Trento invece convivono caratteristiche italiane - la città che caccia il principe vescovo - con altre germaniche, agglomerati che vivono del rapporto con il territorio e con poteri non nascenti dal basso, e infatti Trento non ha istituzioni proprie indipendenti, la figura centrale è quella del vescovo, un piccolo papa onnipotente fino al 1800.

In questa sua visione Trento sembra avere avuto poche caratteristiche che la accomunino alle città italiane.

Quaglioni: Questo è anche il fascino della città, la sua natura ibrida. Il confine con l’Italia è ai Murazzi, Rovereto è invece pienamente italiana, centro di cultura e di industria.

De Battaglia: La città italiana-tedesca è un approccio molto interessante; e allora vale la pena ricordare come Trento abbia fatto da cerniera tra il territorio montano e il flusso nord/sud nella valle dell’Adige. Mettere a fuoco la vocazione di una città è la base della sua storia: un libro come quello di cui stiamo parlando, ben fatto, manca però di un senso complessivo, di una o due domande attorno a cui ruoti il lavoro.

Quaglioni: Come dicevo prima, il libro manca di unitarietà.

Albertoni: Il libro ha molti meriti, fornisce quadri aggiornati dello stato degli studi nelle varie epoche; la critica è la mancanza di quesiti forti attorno a cui riflettere e far ruotare le competenze e ricerche degli autori, cosa peraltro difficile quando ci sono più autori su più periodi molto diversi. D’altronde si sa che la divulgazione spesso si incentra su termini quasi genetici, tipo “la storia del Trentino” come se la parola “Trentino” avesse un senso, che so, nel medioevo. Il tutto può essere reso più difficile se le autorità chiedono appartenenze di lungo periodo, per esempio la percezione di un’alterità trentina, che storicamente proprio non c’è.

De Battaglia: Il punto è che oggi in Trentino mancano anche gli editori. Manfrini, Panorama, Saturnia, Monauni, o hanno chiuso o lavorano in altri settori, Cierre (la casa editrice della “Storia di Trento”, n.d.r.) è un editore veneto. Oggi, a parte la storica Temi e alcune piccole case editrici, sono i veneti che ci forniscono supporto. Poi vorrei sottolineare un altro punto che si riflette nel nostro discorso, il limite della storiografia per saggi: lavori ottimi, molto approfonditi, ma che mancano di visione complessiva.

Quaglioni: Il problema attorno a cui si lavora è sempre un problema dell’oggi, e quindi non ha senso una storia dalle caverne al contemporaneo, ma bensì interrogare il passato a partire da un interrogativo, che può essere la dimensione del potere, il rapporto con l’impero, la laicità delle istituzioni, l’intersezione con il mondo tedesco. Trento si intreccia con le grandi strutture del potere, il principato vescovile è stato il filo rosso della storia della regione.

Introduciamo un altro argomento. Io ho visto una reticenza nel libro ad affrontare il periodo del principato vescovile. Su Adalpreto, il principe vescovo ucciso in battaglia, cui si accenna in tre righette; sul Concilio, del cui senso storico nulla si dice, né delle posizioni politiche di Bernardo Clesio e Cristoforo Madruzzo; sulla fine del principato, percepito dalla città come una liberazione, come un agognato nuovo inizio, come abbiamo appreso altrove, non qui. Non è che ci sia una più generale reticenza di giudizio sul potere temporale vescovile, quasi fosse un tabù, un’area demandata agli studi del Museo Diocesano?

Quaglioni: Una parte della reticenza appartiene al carattere dello studioso; io parlerei di prudenza dello storico, che può non soddisfare dei lettori. La storia d’Europa ha avuto alcune accelerazioni di cui Trento è stato teatro, come appunto il Concilio, una rottura epocale che non si è più ricomposta, la fine dell’unità spirituale dell’Europa, l’inizio di nuovi rapporti tra i poteri. La città non è stata solo sfondo di questo processo, vi ha dato qualcosa di suo, è stata ora ponte tra poteri e culture diversi, ora momento di frattura. Un tema appassionante, che l’Istituto storico italo-germanico (Isig) aveva il compito di approfondire, e il suo depotenziamento è stata una grande perdita.

La decisione di depotenziarlo, non può essere attribuita anche alla mancanza di divulgazione del lavoro che vi si faceva? Ricordo approfonditi convegni internazionali su frammenti di storia, testi iperspecializzati, ma poco altro.

Quaglioni: Può essere. Però su molte iniziative divulgative ho profonde riserve: tipo la forma del Festival. Chiamare gli storici a parlare al pubblico, a me non pare che abbia veramente un senso: lo storico ha già il suo momento di divulgazione, la lezione universitaria, che oggi è ridotta a momento per approcciarsi all’esame, mentre invece dovrebbe essere il luogo in cui si rende pubblica la ricerca, se ne fa partecipe la cittadinanza.

Basta la lezione universitaria? Si può andare oltre?

Quaglioni: Sì, ma occorrono le istituzioni che permettano questa dinamica. Studi Trentini di Scienze Storiche, l’Accademia degli Agiati, c’è una costellazione, un tessuto di istituzioni che svolgono questo ruolo. L’Istituto storico italo-germanico, come d’altra parte è l’università, è stato il collegamento con il mondo. Io sono venuto a Trento proprio perché c’era l’Isig, che era uno dei punti più invidiati in Europa, con un’elaborazione di importanza internazionale. Poi, d’accordo, il problema degli istituti scientifici è come farli funzionare a vantaggio della pubblicazione-divulgazione, che io però non credo vada semplificata.

Albertoni: Il compito dello storico é parlare anche ai non storici; io stesso sono coautore di una storia del territorio trentino recentemente edita dalla Fondazione Kessler. La ricerca, lo studio, formano la base da cui poi può venire la divulgazione; non è giusto giudicare l’Isig in base alla sua produzione di opere divulgative, un istituto può formare il personale che sviluppi competenze che poi si riverseranno, in un secondo tempo, nella divulgazione.

De Battaglia: In effetti l’Isig era percepito come una realtà a sé stante, esterna, ma era un momento necessario, in cui la ricerca storica doveva liberarsi di varie strumentalizzazioni, nazionaliste o nostalgiche per diventare più distaccata. Oggi siamo in una situazione diversa, c’è il prezioso ruolo divulgativo di una serie di associazioni. Forse sarebbe meglio avere qualche conferenza in meno e qualche approfondimento in più.

Albertoni: Il fatto è che mentre lo storico per sua natura problematizza, il politico vuole risposte nette: molto spesso si parte da progetti a tesi che poi però trovano pochi dati a supporto nelle fonti o nella ricerca, il che con il politico crea contrasti. Poi per fortuna, o per merito, il Trentino ha diversi momenti di approfondimento e divulgazione, che permettono un confronto: come si diceva prima, Studi Trentini, l’Accademia degli Agiati, l’Isig, e la straordinaria esperienza di “Materiali di Lavoro”.

Ritenete che nella storia trentina ci siano aree grigie, per varie ragioni o convenienze non sufficientemente indagate?

Albertoni: La scelta di alcuni temi e non altri è in genere dovuta alle inclinazioni personali, perché sono importanti le linee di priorità date dalle istituzioni, ma poi altrettanto lo sono gli interessi dello storico. E in effetti, per quanto riguarda il periodo medievale, si è considerato prevalentemente il principato, dimenticando altri protagonisti, ad esempio la nobiltà.

E il Concilio, vi sembra sufficientemente studiato?

De Battaglia: Sul tema gli ultimi testi di Paolo Prodi sono molto approfonditi. A mio avviso le aree grigie rimaste sono la fine del principato e i rapporti con gli illuministi come Pilati, e tutta la vicenda del cattolicesimo liberale con Rosmini. O figure più recenti, come il vescovo Celestino Endrici.

Quaglioni: Bisognerebbe ripensare la storia di Trento - e il libro ha il merito di porre questi problemi - a partire da grandi temi: gli intellettuali, i giornali... Poi, è vero, c’è il tema dei rapporti della storiografia con il potere.

Albertoni: Più che aree poco affrontate io vedo problemi di metodo. Ad esempio, Federico Barbarossa proibì a Trento la costruzione di torri alle famiglie nobiliari; cosa succedeva in parallelo nelle altre città italiane? Le due cose andrebbero comparate, allora l’argomento acquista maggior senso e spessore. E tutto va poi ricondotto alle dinamiche sociali in atto nella città.

Degasperi

Vedo che concordiamo: gli elenchi di singoli fatti sono poco significativi. Faccio un esempio, da perfetto profano: quando faccio vedere la città a qualche amico, magari straniero, sorge subito la domanda: da dove venivano i soldi per tutti quei palazzi, così belli? Quale la cultura, quale l’economia? Io non ho trovato risposte.

Albertoni: È in effetti un tema da studiare, non ancora approfondito.

De Battaglia: Come da approfondire è il tema del Risorgimento, che non è solo irredentismo, ma una nuova intersezione di Trento con la storia europea, il ‘48 con 21 fucilati e le prime richieste, da parte di Giovanbattista a Prato, di autonomia all’interno dell’Assemblea di Francoforte, in cui l’autonomia era dal Tirolo per unirsi al Lombardo Veneto. Quest’anno ricorre il bicentenario della nascita di a Prato, vedremo se e come verrà ricordato.

In conclusione, studi ce ne sono stati, si è molto seminato; quello che manca ancora, e spero che ci siamo vicini, è una sintesi, un filo complessivo. Stando attenti alle strumentalizzazioni che sono sempre risorgenti, anche se credo ci sia la forza per respingerle.