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QT n. 16, 2 ottobre 2004 Servizi

Chi ha ucciso l’Apemaia?

La troppa chimica in agricoltura sta uccidendo le api. E non solo loro.

Si dice che l’occhio voglia la sua parte (e chi non è d’accordo?), ma in certi casi restar fedeli a questo principio rischia di mandare tutto a remengo, occhio compreso. Ci spieghiamo meglio partendo dall’antefatto.

A metà di maggio, nel pieno di una primavera tra le più disgraziate degli ultimi anni (dal punto di vista atmosferico e agricolo) e di una stagione televisiva che aveva sostituito all’ossessione dei mostri galattici la tenera immagine di un’ape curiosa e intraprendente che vive in una natura incontaminata, piove questa notizia: in varie zone della provincia, soprattutto in quel di Levico e Pergine, le api cadono a interi sciami, uccise dagli antiparassitari. Niente di nuovo, dirà qualcuno: grida di allarme di questo tipo si levano con periodica regolarità dagli apicoltori e dalla loro associazione. Magari qualcun altro, con la logica del meno peggio: "Meglio le api che i cristiani".

Ma non è proprio la normalità con la quale ogni anno si compie questa strage di insetti utili che dovrebbe avere in sé qualcosa di inquietante e indurre ad un minimo di riflessione anche sulla salute nostra? Sì, certo, ci sono interessi sacrosanti e ingiustamente colpiti degli apicoltori (che nel Trentino sono per la grande maggioranza piccoli apicoltori con una media di 20 arnie a testa).

Non è in gioco, è chiaro, un puro interesse di categoria. Questo devono aver compreso anche i legislatori, ovverosia il Consiglio Provinciale, se ha approvato nel giugno 1978 un’apposita legge in difesa delle api.

E non c’è contadino - a parte le alquanto dubbie polemiche sullo sfruttamento che gli apicoltori attuerebbero sulle colture altrui - che non lo sappia da sempre. E’ noto infatti che in molti casi è il contadino stesso a richiedere all’apicoltore di porre in epoca di fioritura le casette delle api nei frutteti per incrementare l’impollinazione.

Già qui emerge un primo paradosso: per migliorare il raccolto si finisce per distruggere l’insetto che per antonomasia lo favorisce. Alla base di questo controsenso sta un uso che si fa crescente e indiscriminato di sostanze antiparassitarie, quasi sempre altamente tossiche per l’uomo, concepite come panacea per tutti i mali e condizione sicura di buon raccolto.

Abbiamo provato a immergerci nelle implicazioni sanitarie e produttive di questo spinosissimo problema, e misurato attentamente quale sia l’enorme differenza che passa tra una generica opzione a favore dell’equilibrio ecologico - oggi invocato a parole praticamente da tutti - e la ricerca di vie concrete e praticabili per superare una situazione che sta degenerando ogni giorno di più.

Cavarsela con una colpevolizzazione dei contadini è fin troppo facile, e forse anche ingiusto: sono essi stessi le prime vittime di questa situazione, perchè i più immediatamente esposti all’azione tossica dei pesticidi.

II dottor Mario Del Dot, ufficiale sanitario di Trento, con il quale parliamo di questo problema, se ne occupa da oltre un decennio con vera passione personale. Egli è stato in grado di misurare in campioni della popolazione trentina, sia agricola che cittadina, il permanere e anche l’accrescersi nel tessuto adiposo dell’accumulo di determinate sostanze tossiche usate in agricoltura, anche a distanza di 8-10 anni.

Riporta casi dolorosissimi, anche di morte, cui ha assistito nella sua esperienza tra i contadini della provincia di Trento dovute a intossicazioni.

Altre ricerche, svolte ad esempio nel 1975 sulla popolazione di Tuenno, hanno confermato un danno reale a livello nervoso dovuto ai pesticidi.

Emerge insomma in tutta evidenza un serio bisogno di medicina preventiva del lavoro agricolo, per certi versi anche maggiore che per il settore industriale.

Le difficoltà obbiettive che si incontrano nello svolgere dei "monitoraggi" (come li chiamano gli esperti), cioè delle indagini sanitarie sugli addetti all’agricoltura, sono davvero notevoli.

Esiste la vastità del campo d’indagine e la dispersione dei soggetti. Esiste una gamma vasta, in continuo mutamento, spesso la combinazione più varia di antiparassitari e concimi chimici.

Esistono le difficoltà strutturali di un servizio come la Medicina del Lavoro, cui mancano probabilmente le forze stesse per svolgere un lavoro sistematico quale è stato a suo tempo ipotizzato.

Ma ci chiediamo: è davvero solo un problema di prevenzione per gli agricoltori (oltretutto "secondaria", perché per quanto indispensabili queste indagini sono pur sempre la verifica di un danno già avvenuto)?

Intanto c’è un problema analogo anche per il complesso della popolazione. Perché molte sostanze, ad esempio il D.D.T., largamente usato negli anni Sessanta, e poi altre che gli sono subentrate, si trasmettono anche al resto della popolazione attraverso la frutta, ma anche attraverso l’ambiente (non ai soli vegetariani insomma).

Ma poi il nodo cruciale è un altro: è possibile o no liberarsi, contadini, apicoltori, consumatori e tutti quanti, dagli antiparassitari?

Posta così la questione è provocatoria ma quanto mai reale. Qualcuno ha detto che la gente vuole la mela sexy: sarebbe il famoso "occhio che vuole la sua parte". I contadini si troverebbero in tal modo nella necessità di ricorrere massicciamente ai prodotti chimici per una superiore "ragione di mercato"..

O la mela è così e così o non si vende. E’ una spiegazione non del tutto convincente.

Infatti crediamo non esista una sola persona di nostra conoscenza che, adeguatamente informata, preferisca una mela bella e tossica ad una brutta e buona. Il meccanismo è più subdolo e sottile, e di fatto alimentato in primo luogo da coloro che promuovono e commercializzano da un lato la frutta stessa, dall’altro i prodotti dell’industria chimica per l’agricoltura.

Il "consumismo" in questo senso ha una presa effettiva, non solo su chi mangia la mela, ma anche sul contadino che la produce. Ma è basato su cose non dette, cioè sull’ignoranza.

Non si dice, ovviamente, che esistono vie alternative, e validamente sperimentate anche su larga scala, per la difesa della coltura dall’attacco dei parassiti.

Chiediamo a Del Dot se non ritiene che la via della lotta biologica cioè l’utilizzo intelligente di organismi antagonisti di quelli dannosi, non sia la sola valida prospettiva di soluzione di questo complesso problema.

"Certamente - ci risponde - io ne sono convinto". Aggiunge però che al punto in cui è giunta oggi la nostra agricoltura, anche in Trentino, dopo decenni di uso massiccio di sostanze artificiali, eliminare di un sol colpo e totalmente il loro uso porterebbe a conseguenze probabilmente rovinose.

E’ accaduto alla campagna un po’ quello che sta avvenendo negli uomini con l’uso continuato degli antibiotici: un indebolimento, un vero e proprio impoverimento delle capacità naturali di reazione dell’organismo. Le conseguenze del metodo fin qui usato sono state: la selezione di razze di organismi infestanti resistenti ai sempre nuovi e più potenti antiparassitari, l’insorgenza di specie nocive in precedenza quasi innocue perché tenute a freno dai loro avversari, l’esaltazione della prolificità dei "ragnetti gialli" e dei "ragnetti rossi", e altre ancora.

Eppure una alternativa credibile alla difesa chimica oggi esiste, ed è chiamata "lotta integrata", usata con successo in molti paesi (ma non in ItaIia).

E’ stata esposta con lucidità e concretezza a Trento da Giorgio Domenichini, docente di Entomologia a Piacenza, già nell’inverno di due anni fa, nel corso di un seminario organizzato dal consorzio Sanitario della Valle dell’Adige e dal Servizio di Medicina del Lavoro.

Tale metodo è basato sulla raccolta accurata delle informazioni utili a prevedere l’entità del danno ad opera degli insetti e a prevenirlo e combatterlo tenendo conto dei vari mezzi disponibili, eventualmente anche chimici, ma in base ad un principio radicalmente innovatore: che un infestante non è più considerato, per la coltivazione, come una sciagura incombente, da sradicare a qualsiasi costo: finché esso rimane entro limiti economici accettabili per l’agricoltore, la sua presenza può considerarsi persino vantaggiosa per l’equilibrio delle forze biologiche.

Il costo della lotta integrata potrebbe essere, nei primi anni, in qualche caso superiore, perché i pesticidi selettivi sono più cari, e i mezzi di osservazione e intervento richiedono più tempo e più coordinamento.

Ma potrebbe essere opportunamente alleggerito da un adeguato contributo; potrebbe anche essere posta una tassa sui pesticidi inquinanti più tossici e polivalenti; occorrerebbe, in una parola, orientare uomini e mezzi in misura idonea alla diffusione di questa strategia, incentivando la ricerca, la necessaria assistenza tecnica, favorendo con un marchio del tipo DOC quegli agricoltori che decidano di adottarla coerentemente. Sarebbe frutta scelta, quella sì.

In prospettiva, questa politica di difesa integrata non solo è necessaria per un graduale e progressivo disinquinamento dell’ambiente agricolo e umano, ma sul lungo periodo si rivela sensata anche dal punto di vista della produzione.

Ma c’è qualcuno, all’assessorato all’agricoltura, o all’Esat (Ente per lo Sviluppo Agricolo Trentino) che, al di là dei riconoscimenti verbali a queste soluzioni più umane, ci creda veramente e le persegua con determinazione?

giugno 1980 (n. 0)