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Kossovo incendiato

Don Lush Gjergij

Abitiamo in Kossovo, nei pressi di Pec-Peja a Gorazdevac che è un villaggio serbo circondato da villaggi albanesi, per questo definito "enclave": praticamente un ghetto.

Quando iniziano le case serbe c‘è un check-point con un baracchino circondato da pile di sacchi di sabbia e un carro armato con il cannone puntato in aria. Dal baracchino esce il soldato rumeno di turno, ti chiede il passaporto, controlla quante persone ci sono in macchina, detta il numero di targa al collega, ti restituisce il passaporto e via.

Gli abitanti di Gorazdevac non valicano quasi mai questi check-point se non con il convoglio che li porta direttamente in Serbia. Non escono per andare in città perché fuori del villaggio si sentono in pericolo.

Ecco Gorazdevac: a vederlo non sembrerebbe molto diverso dal villaggio precedente, le case sono pressoché uguali: non povere e non lussuose, proprio come quelle degli altri villaggi. L‘unica differenza sta nelle persone che vi abitano: qui infatti abitano quelli che sono considerati i "cattivi" della guerra in Kossovo.

La strada principale è percorsa tutti i giorni da albanesi che vanno in città, visto che questa è la via più veloce. Quando succede qualcosa, come l’omicidio di alcuni ragazzi serbi avvenuto l’estate scorsa, i due check-point vengono chiusi e non passa più nessuno tranne gli stranieri.

Sembrava una giornata normale anche mercoledì e tutto si è svolto come sempre fino alle 2 del pomeriggio. All’improvviso tutto bloccato: grandi sassi in mezzo alle strade. Proteste e manifestazioni in tutto il Kossovo e in Serbia.

Il giorno prima erano morti 3 bambini albanesi a causa di alcuni serbi: non immaginavamo che ciò scatenasse una reazione a catena così grande e così ben organizzata. Più di venti morti, oltre 250 feriti, moschee, chiese e case serbe bruciate. Sembra di essere tornati indietro di 5 anni.

Bjelo Polje è un villaggio serbo, presidiato 24 ore su 24 dalla KFOR italiana che si trova nelle immediate vicinanze della grande base italiana chiamata "Villaggio Italia". Lì erano state ricostruite 25 case per altrettante famiglie che sarebbero dovute ritornare. Nell‘attesa erano già presenti i capi famiglia.

Delle 25 case ne sono state bruciate la gran parte, mentre 12 dei 25 capi famiglia sono stati feriti.

Da noi, nell’enclave di Gorazdevac, le persone di notte non dormono per la paura di un attacco albanese, tengono le luci spente, noi facciamo la spola con la città e tutti ci aspettano fuori dalle case, chiedendoci notizie. L’UNMIK ci ha in queste ore chiesto di evacuare, ma noi guardando in faccia le persone del villaggio con cui viviamo, la famiglia con i figli portatori di handicap nostri vicini di casa, non vogliamo abbandonarli, proprio ora che le altre enclave serbe sono state svuotate.

Questi ultimi avvenimenti mettono in luce il fallimento (a questa parola bisognerebbe trovare un sinonimo perché verrà ripetuta troppe volte) della modalità d‘intervento della NATO; lo dimostra anche la scarsa capacità di protezione delle persone in questo caso, e delle Nazioni Unite in Kossovo.

Pensare che con la guerra, seppur umanitaria, si possa esportare la democrazia e la pace (forse nei nostri comodi e sicuri paesi ne abbiamo troppa?) si sta rivelando sempre di più un fallimento. E non solo in Kossovo.

Vi lasciamo con le parole di un nostro amico che da anni lavora per la la pace e la convivenza: "Bisogna aiutare la gente a capire che queste situazioni si possono superare solo con la forza e il coraggio della fede e del perdono, perché il perdono che viene presentato tante volte meccanicamente, come qualcosa che avverrà, come qualcosa che con il tempo migliorerà, è un processo prima di tutto lungo e poi tante volte non avviene neanche, perché molta gente, vivendo nell’odio, non vive, muore dentro".

Cosa vuol dire vivere nell’odio? Vivere per fare del male, e questa non è vita. Per la libertà molti hanno dato la propria vita, e noi apprezziamo il sangue di questi eroi e martiri: ma dobbiamo fare con coraggio un passo in avanti.

La libertà si conquista solo tramite il perdono, perché chi odia non è libero, è schiavo dell’odio. Nel fare o non fare dipende dalle circostanze; quindi dobbiamo riproporre la pace, la riconciliazione e il perdono in chiave positiva e di servizio a quello che vorremmo tutti, cioè un Kossovo libero e democratico.

E per esserlo dobbiamo vincere il dittatore più grande, l’unico, che non muore mai. Non è più Milosevic o qualcun altro, è il dittatore dentro di noi".

Don Lush Gjergij, sacerdote
Vitina (Kossovo)