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QT n. 6, giugno 2011 Trentagiorni

Si fa presto a dire leader

Alla saletta conferenze di Fbk nella discussione sul libro di Sergio Fabbrini “Addomesticare il principe. Perché i leader contano e come controllarli”, il tema vero, e neanche tanto sotteso, era la leadership di Dellai. Ma, con lui presente, e dato il tavolo dei relatori - oltre a Fabbrini e al politologo Michele Salvati anche l’ex rettore Massimo Egidi - il tema non era certo come addomesticare Dellai, ma come, ormai a fine mandato, sostituirlo il meno indegnamente possibile; anzi come fargliene fare un altro, attraverso una apposita modifica ad personam dello Statuto d’Autonomia, che attualmente non lo permette.

Tale entusiasmo non ci piace. Parafrasando Brecht, beato il paese che non ha bisogno di leader; sia perché di un politico che abbia ampia visione strategica non ce n’è bisogno ad ogni legislatura, sia soprattutto perché una comunità matura deve saper esprimere collettivamente, attraverso i pubblici dibattiti, gli indirizzi di fondo, senza doversi necessariamente affidare al personaggio carismatico, sempre ingombrante e spesso debordante. Francamente, questo invocare il capo ci sembra indice di uno stato di minorità, preoccupante quando espresso da intellettuali.

Ma c’è una altro punto che vorremmo sottolineare. Leadership, spiega Fabbrini, significa capacità egemonica, di proporre una visione strategica. In proposito ci viene in mente Thomas Jefferson: autore della Dichiarazione d’Indipendenza dei nascenti Stati Uniti d’America, fu il terzo presidente americano. Il terzo, ma la sua influenza non si limitò agli otto anni dei suoi due mandati, ma si estese sui primi due presidenti (Washington e John Adams) e sui due successivi (Madison e Monroe) anche se non necessariamente del suo partito. E non a caso oggi nella capitale americana sono solo tre i monumenti che ricordano i padri della nazione: quello dedicato a Washington, quello a Lincoln, e quello appunto a Jefferson. Questa è la leadership, la capacità di visione: che se c’è, è cosa distinta dalla gestione del potere. E a differenza di questa non ha bisogno, per essere esercitata, della poltrona.

A noi invece questa latente smania dellaiana per un quarto mandato, vigorosamente sostenuta da clienti e beneficiati, sembra avere poche parentele con la visione strategica, e molte con l’occupazione del potere.

Se poi pensiamo alla corte dei sostenitori - Egidi, che cambiò lo Statuto dell’Ateneo nel tentativo di blindarsi al rettorato; Schelfi che sta tentando lo stesso gioco alla Cooperazione - il giochino diventa fin troppo chiaro. È un giro di persone che, incuranti delle regole da loro stessi promosse, spalleggiandosi l’un l’altro vogliono rimanere abbarbicate al potere.