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QT n. 5, maggio 2011 L’intervista

Razi e Soheila, da Kabul a Trento

Incontro con due giovani registi afghani rifugiati politici in Italia

Razi e Soheila si sono conosciuti alla fine del 2001 aTeheran. Soheila studiava ingegneria elettronica all’università e Razi era potuto entrare alla scuola di cinema solo grazie al suo talento come pittore. Allora faceva convivere la sua passione per cinema, pittura e poesia con il rischioso impegno di coordinare alcune scuole illegali nei dintorni della città, l’unica offerta di sostegno ed istruzione per bambini clandestini afghani. È proprio ad un seminario sull’Afghanistan, poche settimane dopo l’attacco alle Twin Towers, che lui e Soheila si incontrano. Quando chiedo se è stato subito amore tra loro, Soheila non sorride. Mi dice che in Iran le cose non sono così semplici, e cambia in fretta argomento: “Molto presto ho iniziato anch’io a collaborare con lui nel progetto dei bambini”.

Nel frattempo nel loro paese d’origine la situazione è mutata profondamente. Il regime talebano è crollato e il momento sembra quello giusto per un risveglio sociale e culturale. Nel giro di qualche mese Razi parte per Kabul e diviene uno dei protagonisti della rinata scena cinematografica afghana. Il clima in questo periodo è eccitante, tutti i giovani filmmaker del paese si trovano a lavorare insieme in una realtà nuova, più libera e proiettata verso il resto del mondo. Oggi molti tra questi giovani sono figure affermate del cinema afghano ed orientale.

Razi collabora a fondare la “Kabul Film”, la prima casa cinematografica indipendente del paese, ed è attore nel primo lungometraggio post-talebani, il film “Alle cinque della sera” (premio della giuria al Festival di Cannes 2003).

L’Afghanistan però, per quanto sia in rapido cambiamento, non è certo diventato improvvisamente il paradiso delle libertà civili. Fare cinema, mostrare la realtà con un linguaggio spesso non conforme al nuovo potere (o ai residui di potere talebano) comporta gravi rischi. “Lavoravamo a dei lungometraggi e preparavamo servizi come giornalisti televisivi per alcune emittenti francesi, - racconta Soheila - stavamo indagando sul mercato dell’oppio e preparavamo un documentario sui giornalisti afghani uccisi. Razi è stato rapito due volte: una volta l’hanno abbandonato fuori Kabul solo perché pensavano fosse morto”.

La loro storia si intreccia anche con quella del giornalista italiano Daniele Mastrogiacomo. È il 2007, Razi e Soheila hanno appena intervistato il giovane giornalista Adjmal Nashkbandi per il loro documentario. “Pochi giorni dopo è stato rapito insieme a Mastrogiacomo, per cui faceva da interprete, e dopo un mese ucciso”. Qualche mese più tardi la coppia ha finalmente preso la decisione: “È stato dopo l’ennesimo rischio per la nostra vita: hanno tentando di uccidere Razi portando un pasto avvelenato. Per fortuna lui non c’era e l’hanno lasciato ad un vicino, che l’ha assaggiato ed è stato male”.

Parlano del loro paese, ed abbassano leggermente la voce. Si sente che sono preoccupati, forse un po’ tristi. Soheila evoca una metafora che mi colpisce molto: “È come se i politici abbiano scritto una sceneggiatura così complicata per l’Afghanistan che il popolo afghano non riesce a capire che ruolo ha, cosa deve fare”.

Ora Razi e Soheila vivono a Trento, e sono in Italia da 3 anni ormai. “Siamo qui come rifugiati politici, - dice lei - anche se per la verità la legge italiana non fa molta differenza tra asilo politico e immigrazione per motivi economici. Manca una legge organica, e per noi è dura”.

L’Italiano di Razi è più stentato, in confronto a quello sicuro e fluente di Soheila, tuttavia il regista non rinuncia ad esprimere giudizi netti: “Non potevamo vivere in Afghanistan, per come pensavamo. Ci avrebbero uccisi. Là ti uccidono per il tuo lavoro: ti lasciano lavorare ma poi un giorno - una mano di lato piomba sul palmo dell’altra, aperta - pam! Ti uccidono.”

“Ma in Europa è diverso - continua - qui ti uccidono mentalmente. Non ti uccidono per il tuo lavoro o per quello che dici, semplicemente non ti permettono di lavorare. O di esprimerti efficacemente”. Soheila prova a spiegare meglio: “Mi sembra ci una concezione di vita e di morte diversa qui rispetto all’oriente. Là è possibile morire per un obiettivo. Intendo dire, se non riusciamo a vivere come vogliamo almeno possiamo morire bene, in oriente. Qui invece si tende ad annientare mentalmente l’avversario. Non occorre ucciderlo. I giovani, ad esempio, non sono disperati per la fame né muoiono per ciò che dicono come succede in Afghanistan o in Iran, ma qui semplicemente non c’è lavoro per loro, non ci sono vere opportunità”.

Perché avete scelto l’Italia, chiedo: “È stata una decisione dettata dall’amore per l’arte: se fossimo andati in Norvegia avremmo trovato un ambiente molto più favorevole per i rifugiati politici, ma l’Italia è il museo del mondo: ci da tranquillità, è ricco di cultura”. Allora aggiungo: ma perché proprio a Trento?

Razi mi guarda, sorride e dice: “Beh, da qualche parte bisogna pur cominciare!” Il ragionamento non fa una piega. “Sono contenta, - riprende Soheila - qui abbiamo trovato una buona accoglienza, tanti amici e molta cultura.”

Un’Europa libera ma addormentata

Razi ci tiene a spiegare che non sono venuti in Europa per denaro, ma per cercare di arricchirsi mentalmente. “I soldi che ci servono sono solo quelli per vivere. In Afghanistan i soldi li avevo, ma là non c’è possibilità di rimanere senza piegare il proprio pensiero”. Se sono venuti in Europa è per quel significato che loro danno alla vita: “Per noi vuol dire dare e ricevere, vivere come pensi, trasmettere quello che sei e conoscere altre culture, altre idee.” Il sorriso sulla bocca di Razi è sincero, ma se lo si guarda con attenzione si nota anche una sfumatura amara: “In verità però anche qui non è semplice. Spesso siamo trattati come gli immigrati che scappano dalla povertà, e si sa che la loro vita in Italia è molto difficile”.

Negli ultimi anni passati in Italia Razi e Soheila hanno prodotto alcuni cortometraggi e un lungometraggio, “Gridami - mela, melograno, blu” che è stato selezionato alla Mostra di Venezia 2010 nella sezione “Città invisibili” con altri film sull’immigrazione e il mondo del lavoro. Il film è stato finanziato da Cinformi, il centro informativo per l’immigrazione con il quale, assieme a Format (il centro audiovisivi di Trento) la coppia collabora.

Chiedo loro dei progetti in corso: “Attualmente stiamo scrivendo molto e studiando l’Europa, soprattutto la sua storia. Inoltre siamo iscritti alla facoltà di Sociologia, dove siamo impegnati anche in un’iniziativa appena partita ‘Sociocinema’, con la quale tentiamo di coniugare gli strumenti del cinema digitale con la volontà di raccontare la realtà sociale”. Poi Soheila ritorna sul discorso dei giovani sfiorato prima: “Con questo progetto abbiamo conosciuto dei ragazzi davvero bravi. Le energie ci sono, l’entusiasmo e l’idealismo anche. Tuttavia non hanno i contatti che servirebbero, e rimangono senza che sia data loro una vera possibilità di fare quello che potrebbero”.

“Intendiamoci, le istituzioni in Trentino funzionano meglio che nel resto d’Italia, ma il problema è che non ci sono le persone giuste, le classi dirigenti sono vecchie. Il mio mestiere è essere specchio di ciò che vedo, e io vedo una situazione di depressione e svuotamento”.

“Non sentite l’energia, l’umanità e la speranza che emergono da ciò che sta succedendo in Egitto? Sembra che l’Europa non ne sia cosciente. Noi abbiamo voluto scappare qui perché l’Europa era libera, per il mito di una cultura passata. Noi amiamo l’Italia, patria di Fellini, Pasolini, De Sica, Rossellini, ma quest’Europa oggi ci sembra addormentata”.