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QT n. 5, maggio 2011 Cover story

Tempi moderni

Non solo Marchionne: le conseguenze della concorrenza economica sul lavoro. Il caso della Dana di Arco.

“Non c’è molto da spiegare: - mi dice Mauro con due suoi colleghi mentre siamo seduti al bar vicino all’azienda - Dana Operating System vuol dire olio di gomito per i lavoratori”. Ha appena finito il turno, ma ha voglia di raccontare, è incuriosito che qualcuno venga a chiedergli del proprio lavoro. È della FIOM, mi spiega con orgoglio: “Perché è tutto FIOM, qui, con l’80% di operai sindacalizzati tra officina e catena di montaggio. È questa la nostra forza. E abbiamo sempre visto la fabbrica come nostra, dei lavoratori e della comunità. Per questo abbiamo sempre cercato un rapporto costruttivo con l’azienda. Lo sciopero per noi è sempre stato uno strumento estremo”.

Ci tiene a sottolineare questo aspetto, questa commistione tra mondo del lavoro e comunità di provenienza. In un sistema industriale nel quale manager venuti d’oltre oceano arrivano per imporre strategie “vincenti”, disinteressandosi delle conseguenze che avranno sulla vita dei lavoratori, il Trentino sembra essere una realtà a parte, nella quale il rapporto con la comunità locale presenta ancora una certa rilevanza. “Anche se la proprietà è americana, il manager è del luogo. E questo aiuta perché sai con chi hai a che fare” racconta Mauro. È orgoglioso della sua fabbrica: “È sempre stata una tradizione da queste parti andare a lavorare in questa azienda. Le scuole professionali a quel tempo davano facile ingresso nelle aziende locali ed andare alla Dana voleva dire avere una sicurezza lavorativa. Oggi, purtroppo, è diverso. I giovani non vogliono fare più questo lavoro e preferiscono andare al Brico o al Poli. Prendono meno, ma il lavoro è certamente meno stressante”.

E in futuro sarà sempre peggio, secondo i miei interlocutori. Indiziato principale rimane il nuovo sistema di organizzazione del lavoro introdotto da pochi anni. “Il Dana Operating System è stato introdotto tre anni fa alla Dana di Rovereto, ad Arco, sfruttando la crisi economica, un anno e mezzo fa. Ora la linea di montaggio prevede 17 postazioni che automaticamente si spostano ogni 7 minuti e mezzo. E in quel tempo il lavoratore deve terminare la propria opera”.

“Come i polli in batteria”

È soprattutto l’autonomia d’azione quella che sembra essere stata eliminata totalmente dal nuovo sistema di lavoro; ed è questo quello che rimpiange Mauro. “Ti senti come i polli in batteria, - sbotta - tutto il giorno a produrre senza muoverti. Prima non c’erano postazioni fisse e il lavoratore poteva organizzarsi nel proprio lavoro. Sia chiaro che non significa che c’era libertà di fare quello che si voleva: i pezzi giornalieri da produrre erano fissi anche prima. Però, potevi portarti avanti con il lavoro per fare dopo qualche minuto in più di pausa e chiacchierare con i colleghi. Ora non più: bisogna rendere e basta”.

Le conseguenze, però, si fanno sentire a causa dello stress accumulato: “Il problema è che anche a casa lo senti lo stress. Conosco gente che comincia ad avere difficoltà a dormire la notte e che deve prendere pillole. Poi, certo, ti dicono che con il tempo passerà, ci si farà l’abitudine, ma se vuoi la mia opinione, non ne sono convinto”.

Già, l’abitudine, la capacità di adattarsi all’ambiente che lo circonda. La principale caratteristica dell’uomo, la più primitiva, e forse la più pericolosa. E certamente, è il mondo di Mauro quello che sta cambiando. Nel capitalismo moderno non c’è più spazio per la sua visione da operaio, artigiano che padroneggia il proprio mestiere. E, forse, è per questo che la sua visione è molto pessimistica. È una realtà nella quale fatica a riconoscersi e a muoversi.

“Spesso, è il cambiamento in sé a creare i principali problemi; - mi spiegano al telefono Lorenzo Giacchetti e Fabio Tomaselli della Dana di Arco - soprattutto all’inizio, quando i meccanismi sono ancora da perfezionare. In ogni caso, anche dopo aver introdotto delle novità, siamo sempre disponibili ad apportare correzioni in rapporto costante con i lavoratori”.

Non ci stanno a fare la parte dei cattivi quelli della Dana. Parlano in modo animato, ma si sente che vogliono farti capire che si trovano anche loro a dover agire all’interno di un sistema che non posso dirigere.

“Vede - asserisce Giacchetti con il tono infastidito di chi ha già dovuto spiegare il concetto molte volte - fosse per me, i lavoratori, me compreso, potrebbero fare tutte le vacanze che vogliono e lavorare nel modo più rilassato possibile. Però, per fare industria, bisogna fare profitti. Ci sono i committenti e le aziende medie devono produrre pezzi in base al principio della qualità e della produttività. L’apertura delle frontiere economiche e l’accrescersi della concorrenza ci costringe ad adattarci agli standard lavorativi. Il mercato, la concorrenza ci obbligano ad operare in questo modo. E il rischio di perdere un committente a favore di altri è sempre presente. Esistono standard scientifici che valutano l’impatto di certe azioni sulla fatica dei lavoratori. E noi ci adattiamo a questo”.

È un fiume in piena quando prova a spiegarmi i vantaggi che il nuovo sistema avrà per i lavoratori: “La filosofia del sistema Toyota, dal quale deriva quello della Dana, è legata all’abbattimento dei tempi morti. Non una massimizzazione del lavoro, ma una riduzione degli sprechi. Strumenti posizionati in modo da essere facilmente raggiungibili dal lavoratore senza dover compiere spostamenti inutili, nuove strumentazioni atte a ridurre le vibrazioni sulle articolazioni della persona che sta lavorando. È una riorganizzazione ergonomica del lavoro che porta alla riduzione dei rischi per la salute”.

Quando però provo ad affrontare il tema dello stress psicologico prodotto dai nuovi ritmi lavorativi, la risposta è concisa: “ Mi spiace, ma io dati a tale riguardo non ne ho mai visti. Se lei ne possiede, la prego di farmeli avere”. “E poi - attenuando il tono precedente - tenga presente che di norma, in Italia, il tasso di abbandono delle aziende è del 5/6%; qui, alla Dana, rimane inferiore all’1%, anche perché i salari sono molto buoni. E di alternative i lavoratori in Trentino ne hanno. Se l’impatto del nuovo metodo di lavoro fosse così negativo, non avremmo una permanenza in azienda così elevata”.

Ha meno certezze sulla questione Roberto Grasselli, segretario della FIOM del Trentino “È difficile poter commentare i dati a riguardo. Le novità introdotte sono molto recenti e, soprattutto, concomitanti con la crisi economica. Ovvio che il turn-over dei lavoratori è basso: non avendo alternative sicure, preferiscono rimanere. Si dovrà aspettare momenti di espansione economica per poter trarre conclusioni veritiere. Inoltre - tiene a sottolineare - se è vero che i salari sono molto buoni, questo deriva dall’elevata professionalità della forza lavoro e dai ritmi di lavoro molto alti. Sia chiaro che le aziende non regalano nulla”.

Anche lui, come i suoi delegati, pone l’accento sulla distinzione tra sforzo fisico e psicologico legato al lavoro svolto: “Il sistema introdotto alla Dana semplifica l’attività lavorativa perché la postazione è organizzata per diminuire le azioni da compiere. Questo, però, accresce i vincoli alla libertà d’azione del lavoratore. Discorso analogo vale per la nuova figura introdotta, un addetto alle postazioni con il compito di rifornire costantemente l’operaio del numero esatto di pezzi necessari per produrre correttamente il proprio prodotto. Questo accresce la qualità, ma anche i ritmi di lavoro. E soprattutto non permette più alcuno stacco psicologico per rilassarsi, anche brevemente. È come se ad un contadino che sta lavorando il campo venissero tolti quei brevi momenti per asciugarsi la fronte e staccare anche per un solo momento dal proprio lavoro: ora c’è l’addetto che passa con il fazzoletto e tu continui a lavorare ininterrottamente. Hai pezzi contati e non devi più pensare. Il tuo lavoro finisce quando non trovi più pezzi davanti a te. E il lavoratore diventa un automa, alienato ulteriormente dal proprio lavoro, in quanto non ha più alcuna possibilità di padroneggiarlo neppure in minima parte. E non mi stupisco che questo generi stress nei lavoratori, anche perché se lo sforzo fisico è diminuito, il ritmo è aumentato”.

E la ricetta per evitare di rimanere competitivi solamente intensificando i ritmi di lavoro è la solita: investire. “Abbiamo chiesto all’azienda - spiega Grasselli - di avviare un progetto di investimento che sposti un’articolazione della Dana dall’India ad Arco, rendendo il lavoro più efficiente grazie alla sinergia prodotta. Portandola in Trentino non solo si ridurrebbero i costi legati ai trasporti, ma si otterrebbe un prodotto di maggiore qualità pronto in tempi più rapidi, aumentando, così, la produttività senza consumare il lavoratore”.

E se un’azione sindacale decisa è fondamentale per ottenere dei miglioramenti, dall’altra egli stesso sottolinea durante l’intervista come sia necessario tenere presenti le necessità della controparte: pretendere dall’azienda quello che è giusto per il benessere dei lavoratori, ma al tempo stesso capire che c’è un limite da porre alle richieste, dato che la prosperità dell’azienda è in ogni caso la base per poter avere ricchezza da ridistribuire. Questa, in sintesi, la visione “pragmatica” che sembra caratterizzare il sindacato trentino, anche tra le sigle tradizionalmente più “conflittuali”. La speranza, ovviamente, è che questo atteggiamento riesca a contrastare il lento declino al quale sembra invece destinato il Paese.

Dalla Fiat alla Dana: che futuro ci aspetta?

Intervista al prof. Bruno Dallago, preside di Sociologia

Trovo il prof. Bruno Dallago, preside di Sociologia, seduto al telefono dietro la sua scrivania. Con lui voglio provare ad inquadrare meglio il fenomeno in un’ottica generale, per capire quali siano le differenze esistenti tra il sistema industriale trentino e quello italiano. In modo particolare, vorrei comprendere come sia possibile che alla Dana di Arco si sia riusciti ad attuare i cambiamenti precedentemente discussi, mantenendo un buon rapporto con il sindacato (la FIOM, nella circostanza), mentre alla FIAT ciò non è stato possibile.

Quali sono, secondo lei, le principali differenze tra quanto accaduto a Torino e quanto è avvenuto in Trentino, almeno per il caso da noi considerato?

“Per superare le diffidenze del sindacato il management deve chiarire da subito la logica all’interno della quale intende muoversi: industriale o finanziaria. A Torino, i timori del sindacato sono motivati, a ragione, dalla preoccupazione che la FIAT voglia solamente aumentare la propria liquidità, spremendo al massimo gli impianti e la forza lavoro, per acquisire Chrysler. La visione di Marchionne è chiaramente quella di un manager finanziario. Alla Dana, probabilmente, si vede che è stata chiara da subito la logica diversa che muoveva le richieste della direzione”.

Quali sono le più evidenti debolezze dell’industria italiana?

“Inutile dire che il modello industriale italiano è in crisi. È necessario recuperare produttività, ma per farlo esistono due modi: il primo, virtuoso, basato sugli investimenti in tecnologie e sul capitale umano; il secondo, fondato sul taglio dei costi, vale a dire sfruttando gli impianti maturi senza fare investimenti, riducendo i salari e facendo uso di forme contrattuali precarie.

In Italia si è abbandonata la prima strada per inoltrarsi da tempo nella seconda. Con tutte le tensioni che questo comporta. Siamo un paese troppo ricco e abituato a standard di benessere troppo elevati per permetterci questa strategia. Avendo abbandonato la frontiera tecnologica, ci troviamo a competere con i paesi emergenti, i quali però presentano molti fattori di vantaggio rispetto a noi. Sono Paesi con una forza lavoro altamente istruita e che negli ultimi anni hanno investito ingenti somme per rinnovarsi. In più, provengono da una situazione di salari ancora molto bassi e, pertanto, le rivendicazioni dei lavoratori sono ancora contenute. Ovviamente, con il tempo, è molto probabile che i salari di queste realtà supereranno i nostri. In questo momento, però, l’unico modo che abbiamo per competere è quello di abbassare i nostri standard di vita, con le tensioni sociali che questa scelta porta con sé”.

A questo punto, che atteggiamento dovrebbe mantenere il sindacato: conciliante o conflittuale?

“Personalmente, ritengo entrambe le strategie adottate dai diversi sindacati sbagliate. Da un lato, CISL e UIL hanno assunto un atteggiamento partecipativo, ma subordinato alla dirigenza. Non si tratta di cogestione, ma semplicemente di un tentativo di continuare ad essere considerati da chi prende le decisioni. Data la situazione di crisi, è possibile che si tratti di un atteggiamento dettato dalla paura di vedere ulteriormente peggiorare la condizione lavorativa delle persone, ma è evidente che questa visione finirà col delegare totalmente all’azienda le strategie d’azione. La CGIL, invece, ha scelto una strada più conflittuale. Anche questa rimane perdente in quanto si fonda su una visione dell’industria ormai superata.

Quello che il sindacato avrebbe dovuto pretendere durante la fase di crisi economica era di poter cogestire le aziende per poter mettere in luce le debolezze del sistema teso a favorire la proprietà a danno delle altre parti in causa e proporre piani industriali alternativi.

Nelle moderne economie di mercato, è la proprietà ad avere il coltello dalla parte del manico e quindi le colpe maggiori. Al sindacato non rimane che individuare il meccanismo migliore per tutelare i propri lavoratori: e la cogestione è forse lo strumento più adatto.

Ma per fare questo occorre la presenza della politica locale e nazionale. In Trentino potrebbe essere più agevole, data la già massiccia presenza della Provincia nell’economia.

Ma cosa permetterebbe in più la cogestione?

“In Germania, durante la crisi, si è basata su uno scambio tra riduzione dei salari in cambio di riqualificazione del personale e mantenimento dei posti di lavoro. In questo modo non si è disperso capitale umano. La cogestione ha imposto un ragionamento di lungo periodo basato sulla sostenibilità del sistema e sul benessere dei lavoratori. Ovviamente, entrambe le parti devono fare delle rinunce”.

Da quello che mi racconta, è possibile concludere che l’esempio della Dana sia un’eccezione all’interno del panorama nazionale.

“È sbagliato parlare di sistema industriale italiano. Nei decenni passati, solo nel Nord-Est, ne esistono tre forme: il sistema veneto, l’emiliano e il trentino, ognuno caratterizzato da proprie peculiarità. Semplificando, potremmo definire quello veneto come un modello liberistico-anarchico, nel quale il governo locale tende a non intervenire. Il caso emiliano, invece, può vedersi come esempio illuminato di collaborazione tra imprese e governo locale, il quale investe molto sul capitale umano che poi viene sfruttato dalle imprese. Il trentino rimane invece un esempio di gestione ‘tronca’, con un ente pubblico molto attivo che svolge il ruolo di principale attore economico e piccole imprese private che vivono spesso di sussidi o attendono indicazioni dalla Provincia per decidere le strategie”.

E oggi, come possono mantenersi competitivi all’interno?

“Per motivi diversi, tutti questi modelli sono ormai in crisi e superati. In modo particolare, quello trentino deve iniziare a prendere sul serio i fattori esogeni che ne mineranno sempre più le fondamenta nei prossimi anni. Mi riferisco, in modo particolare, al federalismo fiscale. Purtroppo, il motore dell’Autonomia andrà sempre più affievolendosi. È ancora abbondante, concedendo al Trentino tempo per agire, ma è necessario trovare nuove soluzioni che siano diverse dall’andare a Roma per provare a preservare le attuali risorse a disposizione”.

Quindi, con quali soluzioni, almeno per il Trentino?

“Bisogna partire da quello che siamo e avere chiaro in testa il modello di sviluppo che vogliamo. Non possiamo certamente progettare il nostro futuro basandoci sull’esempio di Veneto e Lombardia, in quanto non siamo dotati delle loro risorse, e anche quello emiliano sarà difficile da emulare sia perché non abbiamo industriali così attivi, sia perché non possediamo tanto terreno agricolo come loro. La soluzione è provare a guardare ad altre realtà, simili al Trentino, in giro per il mondo e comprendere come siano riuscite a riqualificarsi. Con riferimento ad alcune realtà che conosco bene, le posso portare l’esempio della North Carolina: un’area depressa proprio come il Trentino fino a 40 anni fa e ora uno dei poli più innovativi al mondo capace di competere con la Silicon Valley. Oppure, si pensi e Regensburg o Freiburg in Germania che da aree depresse sono diventate tra le zone più ricche del Paese. Queste città hanno puntato molto sulla riqualificazione urbana e ambientale, fondando la propria rinascita sull’azione parallela di pubblico e privato”.