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Departures

L’esteta della morte

La ricomposizione della salma viene fatta in pubblico, davanti allo sguardo commosso e attento dei parenti. Siamo in Giappone, e questo momento ci viene raccontato dal film Departures. La conseguenza della forma che assume la cerimonia è che il processo di svestizione, lavaggio, rivestizione, trucco del cadavere va effettuato non solo con la delicatezza più accurata ma con una precisa disposizione estetica. Gli addetti a questa funzione vengono chiamati infatti “tanatoesteti”.

Departures affronta questo tema seguendo la trama di vita di un violoncellista fallito, che fugge da Tokio con la moglie per tornare al paese natale, dove viene coinvolto in questa particolare attività professionale. L’estetica non appare dunque come un di più rispetto alle componenti funzionale e rituale della cerimonia: se un addio, un funerale non è “bello”, nessuna ripetuta e stanca celebrazione può preservarne la forza catartica e ricompattante.

Il tono di Departures, vincitore dell’Oscar come miglior film straniero, rimane in abile equilibrio tra dramma, mélo e addirittura commedia. Sin dalla prima sequenza la sceneggiatura è infatti capace di inserire delle note di ironia anche nei momenti più dolorosi. Il film trova molta parte della sua forza narrativa nel contenuto tematico, nella capacità di affrontare con misura un argomento come quello della morte e dei suoi rituali. Ma contribuisce in modo non residuale alla riuscita del film la recitazione di Tsutomu Yamazaki, già attore per Kurosawa, che interpreta l’anziano proprietario dell’agenzia di tanatoestetica. Aggiungendo di scena in scena qualche piccolo tratto al suo appartato personaggio, Yamazaki riesce a renderlo una figura dai contorni psicologici complessi e affascinanti, dotata di una profondità filosofica nel rapporto disincantato che ha con la vita, nella relazione con lo stigma che lo circonda, nella capacità di gestire le emergenze professionali. È soprattutto dando spazio a questo personaggio che il film lascia emergere una visione disincantata sulla natura umana, inevitabilmente mortale, ma anche un forte attaccamento, non edonistico, agli elementi materiali della vita: la dimensione estetica che accompagna la morte sembra segnare non solo un buon modo per dire addio ma suggerisce anche un metodo per relazionarsi con le cose, per aver coscienza del posto in cui ci si trova, degli aspetti più minuscoli del quotidiano, sui quali non ci concentriamo, ai quali non diamo peso. Il tanatoesteta diventa così anche un bioesteta.

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