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QT n. 1, gennaio 2010 Monitor: Teatro

La professione della signora Warren

Wow, che Shaw!

Il vegetariano George Bernard Shaw (premio Nobel 1925) visse a lungo (94 anni), scrisse oceani di inchiostro su ogni argomento, stimato ed esecrato come solo può esserlo un individuo schietto e lucido. Tuttavia, nel 1934 la sua immagine di socialista (!) impegnato fu gravemente offuscata dal suo appello ai chimici di tutto il mondo per reclamare l’invenzione di un “gas pietoso”, in grado di uccidere senza far soffrire le persone inutili alla società, in particolare come i pigri e gli invalidi. Era divenuto un fan di Hitler. Ciò nonostante Marco Bernardi, direttore dello Stabile di Bolzano e regista, in conferenza stampa (il 3 dicembre, nella Sala Medievale del Teatro Sociale di Trento) ha spiegato bene per quali ragioni, dopo i cupi drammoni degli ultimi anni, ha deciso di portare in scena una commedia di Shaw, più leggera, ma non meno impegnata, scritta in epoca precedente alla svolta nazistoide dell’autore.

All’epoca della sua messa in scena (1902), dopo otto anni di resistenze da parte della pubblica censura, “La professione della signora Warren”, infatti, colpì come un fragoroso ceffone la guancia perbenista della società inglese.

Non era stata solo “la professione” di Kitty Warren, lo sfruttamento della prostituzione, a spaventare i vigili e rigidi censori, ma anche e soprattutto l’accostamento di tale forma di management alla forma legalizzata di sfruttamento del lavoro che si praticava in una società capitalista sfrenata, e ancor priva di attenzioni a tutela della salute e del benessere dei lavoratori. Shaw pensò bene di popolare la sua commedia di personaggi portatori di “discorsi sociali” complementari e significativi, per rappresentare in maniera esauriente la varietà delle opinioni, in un quadro di sostanziale opportunismo ipocrita da parte di tutti loro.

Nessuno dei personaggi sfugge infatti al giudizio oggettivo del testo, che dal confronto tra i diversi atteggiamenti, non lascia intuire una via di salvezza per i membri di una società imperniata sullo sfruttamento esercitato da pochi individui nei confronti di molti. Shaw concima il suo teatro con l’ipocrisia borghese e brandisce la finzione della realtà contro la realtà della finzione, ben insegnando agli amanti del teatro e dell’impegno in arte la differenza tra il mettere in scena una commedia che diverte ma non morde, e il mettere in discussione, come egli fa, ciò che si rappresenta e chi è rappresentato in scena. Il discorso critico del drammaturgo irlandese dimostra abilmente quanto chiaramente come l’ipocrisia del capitalismo si fondi sulla “relatività del male”, in modo tale che ogni sfruttatore di un proprio simile trovi sempre una scusante al proprio comportamento, argomentando che esistono mali peggiori.

Se un’opera scritta nel XIX secolo riesce ancora a dirci qualcosa di importante è certamente perché contiene in sé elementi di riflessione meta-storici, che ne fanno un classico senza tempo e per ogni pubblico.

Malgrado lo slittamento storico della vicenda dall’epoca di ambientazione alla seconda metà del XX secolo e numerosi interventi per favorire la fluidità della lingua teatrale, Marco Bernardi è dunque riuscito nell’impresa di testimoniare la grande attualità della scrittura critica di Shaw. Al servizio di questa apprezzabile impresa artistica, una Patrizia Milani in splendida forma, completamente aderente alla parte, a differenza della giovane “figlia”, Gaia Insenga, talora - a parer nostro - indecisa tra il recitare e l’essere, anche se certamente all’altezza in più di una scena, specialmente se trainata dall’esperienza degli attori seniores, primo tra tutti Carlo Simoni. Intrappolato nella parte di un personaggio molto prudente e riservato, Riccardo Zini ha faticato nel far capire al pubblico che l’affettazione, il leggero ritardo nel pronunciare le battute, era una necessità recitativa piuttosto che una sua indecisione. Perfettamente in ruolo Andrea Castelli, divertente prete di campagna dal passato burrascoso. Molto bella, curata ed efficace, la scenografia di Gisbert Jaekel nel primo, secondo e nel quarto atto. A noi ha fatto un certo effetto, un misto di orgoglio e di perplessità, vedere in scena le nostre sedie da cucina Ikea.

Un appunto finale sul pubblico: si pensi quel che si vuole dell’olfatto di chi scrive, ma cercate di compatire il lamento di chi è costretto a coprirsi naso e bocca con una provvidenziale sciarpa, perché uno spettatore (maschio) qualche poltrona più in là o più dietro, a un certo punto ha deciso di spruzzarsi addosso una quantità industriale di deodorante ascellare, liberando tutt’intorno una nuvola micidiale e soffocante. A teatro succede anche questo.

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