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Curarsi con la filosofia

La “cognizione” del dolore non è solo un’esperienza inevitabile, ma rappresenta un momento fondamentale, che ci chiama a interrogarci sul senso del nostro esistere, sospendendo lo scorrere della routine quotidiana, sollecitando un confronto critico con noi stessi.

Maria Luisa Martini

Giusto ieri un amico psicoterapeuta, che esercita in una struttura sanitaria pubblica, mi esprimeva tutta la sua perplessità nei confronti di una situazione che si trova a registrare sempre più di frequente: l’invio ai presìdi di salute mentale, da parte dei medici di base, di pazienti che in realtà non hanno nessun disturbo del comportamento, ma stanno solo attraversando un momento difficile della loro esistenza, ad esempio un lutto o una malattia, oppure una separazione. La fragilità e il disagio psichico, a cui inevitabilmente ci troviamo esposti in queste situazioni, vengono collocati sul versante della patologia, come se le persone non fossero più in grado di confrontarsi con gli aspetti dolorosi della vita né di assumere in proprio quelle sofferenze che l’esistenza necessariamente comporta.

Si va dunque diffondendo e consolidando nella mentalità comune del nostro tempo la tendenza a patologizzare momenti di difficoltà, che da sempre rappresentano fasi purtroppo non evitabili della vita, e a trasformare il malessere psicologico che li accompagna in un segno di vulnerabilità, che viene inscritto nell’orizzonte della patologia e che deve essere risolto con la medicalizzazione.

Questo atteggiamento, piuttosto che procedere nella direzione di una risoluzione del problema, va invece ad aggravarlo, dal momento che rinforza la percezione delle difficoltà e inceppa i processi di crescita dell’autonomia individuale. Anziché sostenere la strutturazione di personalità capaci di affrontare e superare quelle sofferenze che la vita necessariamente implica, l’orientamento verso una medicalizzazione generalizzata ha un effetto di rinforzo della patologia. Non è casuale che negli ultimi anni si registri un progressivo allargamento delle patologie dell’umore (ansia, mania, depressione), con un correlato aumento dell’uso di psicofarmaci che ha raggiunto livelli allarmanti ( come denuncia anche il Notiziario dell’Ordine degli psicologi, anno 08, n. 2).

Nel bel saggio di Moreno Montanari "La filosofia come cura" queste riflessioni critiche sulla tendenza terapeutica diffusa ai nostri giorni vengono integrate da un’ulteriore osservazione problematica. Richiamandosi al pensiero di Martin Heidegger, Montanari sottolinea come la "cognizione" del dolore non sia solo un’esperienza inevitabile nell’esistenza di ogni uomo, ma rappresenti un momento fondamentale, che ci chiama a interrogarci sul senso del nostro esistere, sospendendo lo scorrere della routinequotidiana, sollecitando un confronto critico con noi stessi e con l’autenticità delle nostre scelte di vita. Siamo costretti a chiederci se ciò che pensiamo sia davvero nostro o non sia piuttosto il risultato dell’abitudine e delle convenzioni sociali. Siamo costretti, insomma, a fare i conti con noi stessi, riappropriandoci della nostra vita, per poter dare compimento alla sua peculiarità, alla sua unicità.

Moreno Montanari

Montanari coniuga la critica alla medicalizzazione diffusa con l’indicazione di approdare a una cura autentica dell’esistenza, così come viene suggerita e declinata nel corso della storia della filosofia, fin dalle sue origini greche. Specifico della filosofia infatti non è la terapia. Anche se non sono mancati pensatori – da Epicuro a Wittgenstein - che hanno proposto le loro riflessioni come "terapie dell’anima", il loro approccio può essere meglio definito dal termine "cura", e in particolare dall’accezione che la lingua inglese assegna al verbo "to care", differenziando così il significato medico della cura ("to cure") rispetto a quello della premurosa partecipazione verso qualcuno che ci sta a cuore. Propria della filosofia è l’accezione non medica, che riconosce nella cura di sé il compito principale assegnato a ogni uomo, che, a partire dall’esercizio riflessivo volto alla conoscenza di sé, riesce a conseguire la propria autenticità.

Pier Aldo Rovatti

Il saggio di Montanari può essere letto come un tentativo di risposta al volume, pubblicato qualche mese fa, di Pier Aldo Rovatti, "La filosofia può curare?" Prendendo posizione sul movimento sempre più affermato delle "pratiche filosofiche", Pier Aldo Rovatti ha sollevato alcune perplessità ed ha posto alcune domande che non potevano rimanere inevase. Come può la filosofia affiancarsi alle terapie del disagio diffuso, se non intende rinunciare a quello che da sempre è il suo compito fondamentale, ossia l’esercizio critico del pensiero? Se vuole differenziarsi dall’imperante cultura terapeutica, come deve caratterizzare le proprie procedure?

Richiamandosi all’insegnamento di Michel Foucault, Rovatti gettava acqua sull’entusiasmo suscitato dalle pratiche, mettendo in guardia dai dispositivi di potere e di controllo sociale che ogni esperienza di costruzione della soggettività può implicitamente riprodurre.

Dichiarando apertamente di guardare con molto interesse al nuovo fenomeno delle pratiche filosofiche, Rovatti sollecitava però una più attenta consapevolezza dei pericoli sia di banalizzare della filosofia, sia di appiattire il suo spirito critico sotto il dominio del regime di discorso della cultura dominante e "delle sue ortopedie per sedare i conflitti". Prosegue Rovatti: "Se la consulenza filosofica vuole differenziare il suo prendersi cura dal reale orizzonte terapeutico delle cure dell’anima, deve cercare di mettere in atto qualcosa come una contromanovra". Suonava come un invito. A cui Montanari ha saputo rispondere con puntualità e profondità.

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