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Quarant’anni in Uganda

Il lavoro di suor Silvia, fra ospedali e preghiera, fra guerra e AIDS.

Quando ho saputo, dalle sue consorelle comboniane, che suor Silvia lavora in una casa di esercizi spirituali fuori Kampala, ho avuto un moto di sorpresa: esercizi spirituali in un posto come questo? Che senso c’è ad occuparsi di spiritualità quando i bisogni materiali della gente sono così evidenti e minacciano la sopravvivenza di tante persone? Non capivo proprio: così le ho telefonato e ho fissato un appuntamento.

Un villaggio dell’interno con le tipiche capanne di argilla e il tetto di paglia.

Il St. Daniel Comboni Retreat Center si trova a Namugongo, un quartiere esterno alla capitale Kampala. Per raggiungerlo bisogna viaggiare a lungo dentro la città, cosa che ho fatto a bordo di un taxi, stupendomi nel vedere con quale sicurezza si muoveva l’autista. Qui non esistono indicazioni (nessuna!) e la città, che almeno a noi europei appare come un susseguirsi infinito e indistinto di baracche e strade per lo più sterrate, bisogna conoscerla bene, altrimenti è impossibile arrivare alla meta. Ma il mio tassista conosce Kampala come le proprie tasche e in poco tempo mi conduce al colle (Kampala si sviluppa tutta tra colline e dossi) dove suor Silvia mi aspetta.

Il giardino del St. Daniel Retreat Centre.

Ed ecco la seconda sorpresa: il posto è bellissimo, curato in modo quasi maniacale e la differenza con quanto c’è intorno colpisce immediatamente in modo piacevole e consolante. Allora anche qui ci può essere ordine e pulizia, bellezza e armonia!

Mentre l’auto si ferma, suor Silvia, con tempismo perfetto, scende le scale della casa e mi accoglie con un caldo sorriso. E’ una donna anziana ma ancora svelta e agile, che conserva sul viso i segni di una bellezza trasformatasi in solare e radiosa serenità. Con orgoglio e semplicità accoglie i miei apprezzamenti e mi conduce a visitare l’enorme complesso in cui lei, da circa sei mesi, è responsabile della cucina.

Suor Silvia Pisetta, originaria di Albiano, in val di Cembra, è in Uganda dal 1960 e, fino a qualche mese fa, ha sempre lavorato in ospedale come infermiera. E’ stata nelle zone devastate dalla guerra civile e dove hanno maggiormente infierito gli eserciti dei dittatori e dei ribelli che, per decenni, si sono accaniti su questa tormentata terra.

Nominare gli ospedali dove è stata è impossibile: Kitgum e Lira, Morulem, Matany....

Racconta, con una serenità che per me è impossibile da comprendere, degli orrendi mutilati che arrivavano in ospedale dopo le incursioni dei soldati che, sotto bandiere diverse, si accanivano tutti allo stesso modo sulla popolazione inerme.

"Li curavamo, cercavamo di fare quello che si poteva. - mi dice guardando lontano, in quel passato dove trovano spazio immagini raccapriccianti - Ma ormai sono cose passate, - si affretta ad aggiungere - adesso questo paese è finalmente in pace".

E poi la lebbra, che per tanti anni è stata lo spauracchio dell’Africa intera, finché, negli anni Ottanta del secolo scorso, un nuovo cocktail di farmaci ha fatto miracoli. Ma un altro flagello stava per abbattersi sull’Africa e sul mondo intero: quello dell’AIDS.

"Fu intorno alla metà degli anni ’80 - ricorda - che arrivavano in ospedale tanti malati di tubercolosi, e non capivamo come mai. Li curavamo, sembravano rispondere bene alle cure e li rimandavamo a casa. Ma lì, in pochi giorni, si aggravavano e morivano".

I ricordi precisi di suor Silvia ci accompagnano lungo giardini dalle geometrie precise dove cespugli di fiori esotici crescono accanto a ortaggi nostrani, portati qui dalla sua passione per le piante e le verdure.

Perché un centro di preghiera a Kampala, suor Silvia? Non ci sono bisogni più urgenti qui?

"Lavorare in un posto come questo è difficile e mette continuamente alla prova. I religiosi hanno bisogno della preghiera, del raccoglimento, di ritrovare se stessi e ascoltare la parola di Dio. E bisogna aver a disposizione uno spazio accogliente, silenzioso, bello, dove poter dedicarsi in pace alla meditazione. Ecco perché è nato questo centro, che però è aperto a tutti e infatti qui ospitiamo anche molti laici".

Suor Silvia

Che effetto le fa vivere in un posto come questo dopo che per decenni è stata in ospedali difficili e di frontiera?

"Lo considero un dono di Dio, una grazia che mi è capitata e di cui ogni giorno sono grata al Signore. E, con le consorelle, faccio tutto quello che posso per far funzionare questo posto al meglio e mantenerlo con la massima cura".

Quali sono le difficoltà maggiori che ha incontrato lavorando con questa gente?

"La differenza di mentalità e di cultura. A volte è difficile comprendersi e si rischia di litigare per le piccole cose. Per esempio la puntualità: qui non esiste e a volte io mi arrabbio e li rimprovero aspramente. Ma subito dopo mi pento e mi scuso. Ma dico anche ‘Però la prossima volta cercherai di arrivare puntuale, vero?’"

Qual è, secondo lei, il problema principale di questo paese?

"Sono i cambiamenti troppo veloci. Qui non c’è stato un passaggio graduale: fino a ieri vivevano nel bush e adesso si trovano improvvisamente con Internet e il cellulare in mano. Abbandonano la terra pensando di trovare l’eldorado in città e precipitano nella miseria e nel degrado e da cui non sanno rialzarsi".

A maggio Suor Silvia rientrerà nella sua Albiano, per il periodo di riposo a cui ha diritto ogni tre anni. "Ma poi spero che mi rimandino in ospedale, - mi dice con un sorriso - io sono un’infermiera e sono ancora capace di fare il mio lavoro".