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Questa Cina

Splendori e miserie della grande potenza di domani. Da “L’altrapagina”, mensile di Città di Castello.

Ilaria Maria Sala

La Cina da tempo vanta tassi di crescita straordinari, all’insegna di un dinamismo molto vistoso. Il boom, tuttavia, ha investito un paese che continua a controllare tutti i mezzi di comunicazione, per cui la concezione che i cinesi hanno dello sviluppo in corso è molto diversa a seconda di dove vivono. Nelle campagne probabilmente sentono poco o nulla di tutto questo, mentre a Shanghai si avverte lo sviluppo, ma magari non si sa nulla della condizione di arretratezza dell’entroterra.

A dimostrazione della crescente divaricazione interna è sorto anche un inedito fenomeno di beneficenza interna: nelle tv e nei media locali si assiste ormai a una rincorsa alla solidarietà di varie piccole star televisive a favore dei bambini dei villaggi. Ovviamente il tutto viene fatto senza mai mettere in discussione lo status quo, per cui nessuno si scandalizza se a Shanghai, a livello materiale, c’è tutto ciò che si può desiderare mentre a due ore di volo, nello stesso paese, ci sono bambini che non hanno i banchi per andare a scuola. Resta comunque l’arroganza di chi sta crescendo a una velocità incredibile, e che da un giorno all’altro si è scoperto "minaccia economica" per tutto il mondo. Se a questo si aggiunge il fatto che il nazionalismo cinese è molto rancoroso, la miscela diventa esplosiva.

La situazione è resa più critica dal venir meno del welfare socialista, soprattutto nell’ambito della salute e dell’educazione. Recentemente negli Stati Uniti è stata condotta un’indagine sullo stato della sanità in Cina, e i risultati sono allarmanti. Del resto lo si vede anche a livello empirico, parlando con amici o andando in giro: per molti cinesi, oggi il presentarsi di un problema sanitario è la prima causa di impoverimento per l’intero nucleo familiare. Ora il governo sta sollecitando le assicurazioni private, perché lo Stato non rimborsa più uno yen di spese mediche; solo chi fa parte di un’azienda, può godere di alcuni benefici, ma non esiste più un servizio pubblico nazionale, un’assistenza garantita che protegga chiunque, dovunque lavori. D’altra parte, la beneficenza di cui parlavo non è tesa a fare pressioni sul governo, non mette insomma in discussione le scelte politiche che stanno portando a questa situazione: nei giornali si trovano a volte delle storie strappalacrime, tipo la vecchietta ammalata di cancro che, per non gravare sul bilancio familiare, va a morire da sola da qualche parte. Eppure nessuno si scandalizza che in un paese che si vanta di essere l’ottava potenza, che ha sorpassato la Gran Bretagna, ci sia una vecchina che va a morire da sola per non ostacolare la carriera del figlio.

La stessa situazione riguarda anche la scuola che ormai, a tutti i livelli, è a pagamento. Le scuole elementari e medie sono abbastanza accessibili, ma l’università è diventata pressoché chiusa.

L’assenza di sicurezza sociale ha un altro effetto negativo: oggi in Cina c’è una competizione sfrenata fra le persone, che coinvolge in primo luogo le donne. Oggi le donne devono essere sessualmente appetibili, perché questa è una carta in più da giocare per avere una vita migliore, ovvero per trovare un marito con una buona posizione. Così ci sono concorsi di bellezza a tutti i livelli, di tutti i tipi, in tutte le città, grandi e piccole; ci sono perfino dei concorsi di bruttezza: la più brutta vince la chirurgia plastica, che le permetterà poi di trovare un lavoro migliore. E il governo cosa fa? Dà una borsa di studio ai più intelligenti? No, fa un concorso di bellezza, e la più bella vince una borsa di studio.

Anche sul versante del lavoro la situazione non è tra le più rosee, c’è infatti un grosso problema di disoccupazione, anche se a macchia di leopardo: a zone, come il sud della Cina, a occupazione quasi piena, si contrappongono aree con tassi di disoccupazione molto elevati. Il tutto è poi aggravato e complicato dai limiti posti alla mobilità interna, in particolare tra campagna e città.

Come sappiamo, i cinesi si sottopongono a orari di lavoro spesso allucinanti, molti poi alloggiano nei dormitori allestiti all’interno della fabbrica. A Shanghai le cose cominciano ad andare meglio, perché la zona è diventata più ricca, ma al nord le condizioni continuano ad essere mostruose. C’è anche un problema sanitario: nell’industria dei gioielli, ad esempio, la silicosi sta diventando un fenomeno a tappeto, perché per risparmiare fino all’ultimo centesimo non distribuiscono nemmeno le mascherine, non c’è aerazione, nulla. Tutto questo poi avviene in un paese in cui il sindacato autonomo è illegale, per cui al massimo il Partito comunista manda persone del sindacato ufficiale a ispezionare le condizioni degli operai.

I lavoratori che lasciano il proprio paese d’origine in genere hanno come obiettivo quello di sacrificarsi al massimo per 3-4 anni, per poi tornare indietro con abbastanza soldi per costruire una casa per i genitori e magari anche per aprire un negozio, un ristorante. Lo stipendio, per questi operai non particolarmente qualificati, è di circa 800 yuan, l’equivalente di meno di 100 euro al mese. E’ una cifra limitata, ma siccome non escono praticamente mai dalla fabbrica (neanche per dormire), riescono a mettere da parte tutto e quando tornano nel loro villaggio, questi soldi sono tutta un’altra cosa, perché lì i costi sono molto inferiori.

Shangai

In questa vicenda di migrazioni interne, si nascondono anche molte storie tragiche. Spesso, dopo aver investito tutto per andare via, il lavoro non lo trovi, e magari a casa non lo dici per non dover affrontare la vergogna, o comunque perché non vuoi che si preoccupino per te, allora fai finta che vada tutto bene e in questi casi succede che molte donne finiscano nel giro della prostituzione e gli uomini vengano reclutati dalla malavita o vadano a mendicare.

Se parli con i lavoratori di queste fabbriche, ti colpisce l’entusiasmo, l’idea che il sacrificio durissimo di alcuni anni abbia comunque senso perché così si può tirar fuori dalla miseria tutta la famiglia. Solo che questo sacrificio a tempo determinato innesca poi delle condizioni di lavoro terribili, perché essendoci un ricambio continuo, con gente disposta a tutto, non ci sono limiti e così si alimenta una condizione di abuso. Questo sta facendo anche la fortuna degli investitori stranieri in Cina.

In Italia si parla tanto del "pericolo giallo". Io però, nel corso degli anni, ho visto venire molti imprenditori del Nordest italiano, quello che ora è in crisi "per colpa della Cina", che arrivavano proprio con l’idea: ‘Vado lì, impianto una fabbrichetta, produco per due lire, tanto questi lavorano dieci ore e non dicono niente’.

Tra l’altro in Cina non hai il problema ambientale: puoi scaricare i rifiuti tossici dove ti pare, non hai nemmeno dei lavoratori che chiedano il rispetto dell’orario, anzi non accetterebbero mai le 8 ore, perché tutti vogliono fare lo straordinario per guadagnare di più e più in fretta.

All’interno della geografia della dissidenza cinese, il 95% risulta essere cristiano. Essendo in primo luogo dissidenti politici, non mettono in primo piano la religione, però quando li conosci personalmente scopri che sono tutti cristiani. Per me, come italiana, questa è stata una sorpresa: io arrivavo coi miei preconcetti di una Chiesa abbastanza irreggimentata, gerarchica, a tratti oscurantista, invece lì, dove la presenza dogmatica, istituzionale della Chiesa è molto meno forte, quello che fa presa è il discorso sovversivo di Gesù Cristo, che dice che tutti gli uomini sono fratelli, che nessuna sofferenza umana è accettabile e che Dio è vicino ai poveracci, non ai potenti. Un cristianesimo delle origini che ha un impatto fortissimo e che in qualche modo giustifica il fatto che il cristianesimo sia diventata la religione dei dissidenti.

In Tibet, invece, sono i monaci e le monache a sfidare il potere e anche questo è curioso. Le monache non hanno figli né mariti, per cui, in qualche modo, sono più libere anche rispetto ai rischi che corrono; diverso sarebbe per una madre di famiglia. In Tibet ma anche nella Mongolia interna, e in generale nei Paesi dove ci sono monasteri buddisti, c’è una forte componente di ribellione che passa attraverso la religione.

C’è poi una regione, lo Xinjiang, dove c’è un progetto islamico-politico forte. Nello Xinjiang la dissidenza laica è stata completamente eliminata, o comunque ridotta al silenzio e questo ha lasciato molto più spazio ai vari predicatori arrivati per lo più dal Pakistan e dall’Afghanistan, con un messaggio di opposizione ai cinesi in quanto infedeli. Così oggi in queste aree la dissidenza organizzata ha una matrice islamica. E’ un Islam che è rimasto abbastanza isolato dalle correnti più radicali. I primi cinesi si convertirono intorno all’VIII-IX secolo. Soprattutto a Canton, da sempre aperta al commercio marittimo, c’era una presenza significativa di arabi e l’imperatore concesse loro di sposarsi con donne cinesi. Così è nata questa popolazione, gli Hui, i quali si considerano, anche dopo mille anni, in parte arabi, ma anche cinesi perché di antica madre cinese. Oggi ovviamente sono molto mescolati e pressoché irriconoscibili; gli unici tabù forti che rimangono sono quelli alimentari. Poi ci sono le preghiere, ma la devozione non è fanatica; l’unico momento in cui avverti una certa passione nei discorsi è quando si parla di quello che sta facendo Bush, dell’Iraq, della Palestina; riguardo invece le questioni più interne, come il velo per le ragazze, la cosa non li tocca, anzi in Cina ci sono imam donne, moschee solo per donne: è una forma di Islam dove tutta questa misoginia non è entrata.