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QT n. 6, 25 marzo 2006 Monitor

Crash - Contatto fisico

Oscar meritato quello assegnato al film di Paul Haggis: complesso, ambizioso e al contempo umile, un lavoro che pur spiazzando lo spettatore, lo convince. Protagonista Los Angeles. città luminosa dall'oscuro ventre notturno.

E’ un Oscar meritato, quello a "Crash – Contatto fisico", tornato nelle sale dopo la statuetta dell’Academy. Va a premiare un film complesso, molto studiato a livello di sceneggiatura, ambizioso nel suo parlare di temi importanti e allo stesso tempo umile nel rifarsi/appoggiarsi ad altri affermati percorsi registici e narrativi – quello di Robert Altman e del duo David Lynch / David Cronenberg.

Di Altman, il film riprende il modo di condurre la storia, la voglia di intrecciare i racconti, di far incontrare personaggi che sembrerebbero destinati a condurre vite separate e lontane. La Los Angeles descritta dal regista Paul Haggis è un piccolo mondo dove le persone, che lo vogliano o no, finiscono inevitabilmente per incrociarsi – o piuttosto per scontrarsi, magari cozzando in macchina.

Lo spunto narrativo parte proprio da un incidente d’auto, in una scena e in un dialogo che ricorda l’altro "Crash", la pellicola di Cronenberg ispirata al libro di J. G. Ballard. Anche il film di Haggis ritrae Los Angeles come una città dove non si cammina: il contatto fisico non è possibile perché tutto è mediato da un mezzo meccanico. Uno scontro tra automobili è quindi fra le rare occasioni per uscire da un guscio, non solo metaforico.

A partire dalla quasi-citazione della scena sul Mulholland Drive, emergono poi spunti registici che si rifanno allo stile di David Lynch. Come nei film di Lynch, il caos e il random dominano le nostre esistenze e fanno saltare tutti i rapporti di causa-effetto attraverso i quali una persona vorrebbe riuscire a programmare la propria vita. Haggis, tuttavia, si rifà a Lynch sottraendo al coté nero del regista di "Velluto blu" gli universi paralleli e le derive metafisiche o oniriche: la storia di "Crash – Contatto fisico" tiene sempre ben saldi i piedi (o le ruote) per terra, appoggiati all’asfalto della città di L. A.

La costruzione del racconto non permette mai allo spettatore di capire veramente da che parte stare. Personaggi che suscitano simpatia si rivelano poi deboli, disonesti, o malvagi; mentre dall’altra parte i cattivi non riescono ad esserlo mai fino in fondo. Il gioco, in questo senso, è condotto in modo sapiente, anche se in qualche circostanza a Haggis finisce per scappare la mano: la moglie razzistoide del procuratore distrettuale si converte alla tolleranza multiculturale perché è aiutata dalla donna di servizio messicana quando cade dalle scale. Ma sentirle pronunciare "Ho capito che sei la mia migliore amica" è un po’ eccessivo.

Il tema del film è dunque quello delle contraddizioni di Los Angeles, prima fra tutte quella razziale. Los Angeles è una città multietnica ma non pacificata, come raccontano decine di film ("Colors", "Slam", "Training Day"…) e come dimostrano casi di cronaca come quello di Rodney King. L’incontro con chi ha un colore della pelle diverso continua a riservare disagio e paura. Alla solita giustapposizione tra bianchi anglosassoni e afroamericani si sommano ora le tensioni con gli arabi, i messicani, i cinesi, i portoricani, in un vortice di sfruttamenti reciproci che sembra quello di una società organizzata in caste: i cinesi si dedicano al traffico di clandestini, gli arabi imparano dagli autoctoni il diritto all’autodifesa armata, i neri che arrivano a posizioni di potere si dimostrano corrotti tanto quanto i bianchi... Sembra proprio che ognuno, dalla vicinanza con il diverso, riesca ad assimilare solo i suoi aspetti peggiori.

Ma Los Angeles, vera protagonista del film, contiene contraddizioni in ogni suo poro: è la città di Hollywood, ma anche la location dei noir di James Ellroy; è una città luminosa, ma possiede un ventre oscuro, notturno; è una città dove la polizia è forte e invece (o forse proprio per questo) un senso di paura e di insicurezza domina la popolazione. Come scrive il sociologo Mike Davis in "Città di quarzo: indagando il futuro a Los Angeles" (manifestolibri), "il significato storico di Los Angeles – e la sua peculiarità – consiste nell’essere riuscita a impersonare agli occhi del mondo intero il duplice ruolo di utopia e distopia del capitalismo avanzato. Lo stesso luogo finisce con il simboleggiare sia il paradiso sia l’inferno".

La contraddizione tra l’immagine che abbiamo noi della Los Angeles dei romanzi e dei film e la Los Angeles reale sembra cozzare ancora una volta con un "crash" quando notiamo, negli uffici della polizia, la fotografia ufficiale del governatore della California, Arnold Schwarzenegger. Vederlo così in veste istituzionale fa decisamente impressione. Vuol dire che quella confusione tra fiction e realtà non la viviamo solo noi, ma anche – come minimo – gli abitanti della California, che hanno voluto eleggere colui che nei film d’azione è un problem-solver, un uomo tutto d’un pezzo, carismatico, potente. E’ proprio il genere di schematica, facile, rassicurante finzione/rimozione cui "Crash" contrappone una lettura diversa, un punto di vista mosaicato e complesso che ci mostra quante incoerenze si nascondono in ogni singola vita.

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