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QT n. 9, 3 maggio 2003 Monitor

“Itinerari Jazz” per un pubblico poco curioso

Ottime esibizioni, musica coraggiosa eppur godibile, nella rassegna jazzistica trentina. Eppure il pubblico arriva numeroso solo agli "eventi", quando si esibiscono i nomi già declamati dai mass media.

Giuseppe Segala

Grande mattatore della diciottesima edizione degli Itinerari Jazz a Trento, conclusasi lo scorso 12 aprile, è stato Wayne Shorter. Il sassofonista ha dimostrato di essere in un momento particolarmente fecondo della sua carriera, in cui sembrano connettersi con equilibrio dinamico tutte le componenti che hanno da sempre distinto il suo lavoro.

Wayne Shorter.

L’aspetto dell’improvvisazione, condotta nel modo più libero, ma attenta allo sviluppo di un discorso coerente sotto il punto di vista della forma. L’aspetto compositivo, da sempre uno dei cardini del lavoro di Shorter, che riassume in sé l’essenza stessa del jazz: strutture disegnate con estrema elasticità, che hanno la capacità di modellarsi in tempo reale, sotto lo stimolo del gioco solistico collettivo, che seguono l’ispirazione del momento, ma nel contempo si collocano all’interno di un quadro espressivo ben preciso. L’aspetto dell’organizzazione di gruppo, per cui musicisti eccellenti come Danilo Perez e John Patitucci sono messi in grado di esprimersi al massimo delle loro potenzialità, dialogano e si stimolano a vicenda con una profondità che in precedenza non si era mai ascoltata.

John Warren.

Mattatore anche sotto il punto di vista dell’affluenza di pubblico, che in quella serata stipava l’Auditorium. E che ha saputo ascoltare con ammirabile attenzione e concentrazione una proposta musicale non certo facile per la stratificazione continua di stimoli e di modalità espressive. Ma Shorter, pur nella sua sublime esibizione, non era l’unico artista degno di attenzione della rassegna, e in questo caso il pubblico ha ribadito una tendenza che ormai da qualche anno si riscontra in tutti i campi dello spettacolo, e certamente non solo a Trento. La si può chiamare sindrome da evento: quando il nome che calca il palcoscenico è stato ampiamente declamato dai mass media, si può essere sicuri che le sale si riempiranno. In caso contrario, si rischia di trovarsi letteralmente in quattro gatti. Peccato, perché in questo caso, come in altre occasioni, certe proposte degne di attenzione passano inosservate.

Ne è un esempio il concerto che ha aperto la rassegna, in cui il percussionista Roberto J. Rodriguez presentava un coraggioso progetto di fusione tra la musica klezmer e le scansioni ritmiche cubane. Operazione godibile e perfettamente riuscita, che nel pubblico presente ha trovato adesione incondizionata, ma che avrebbe meritato ben altra affluenza. Così pure il concerto della serata con Franco D’Andrea ed Ernst Reijseger, abbinato all’operazione didattica condotta da John Warren e John Surman, che ha messo in luce ancora una volta come l’orchestra degli Itinerari abbia maturato una propria fisionomia solida ed equilibrata. E allo stesso modo l’esibizione del quartetto di Tim Berne, forse di più ardua fruizione, ma degna di svegliare la curiosità di un pubblico attento.

Franco D'Andrea.

Solo la serata conclusiva, con protagonista un altro gruppo storico della musica afroamericana, ha ricevuto una degna accoglienza in termini di presenze. Insomma, un pubblico un po’ ondivago e poco curioso ha premiato solo gli eventi più altisonanti, lasciandosi sfuggire altre occasioni, che avrebbero meritato ben altro riscontro.