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QT n. 21, 8 dicembre 2001 Monitor

Uno Scapino vestito di nuovo

Una riedizione della celebre pièce di Molière ad opera di Sergio Fantoni. Un riadattamento a Napoli e all'oggi: molto libero, e molto riuscito.

Due ore di ghigni e risate. Poi l’ovazione finale. Se Molière è andato a segno, stavolta lo dobbiamo soprattutto a chi lo ha messo in scena. Certo, "Les fourberies de Scapin" sono e restano una perla del teatro, eppure il tempo erige distanze: una pièce è attuale solo appena è stata scritta. "Non mi sono mai preoccupato se una scena fa ridere, ma se in quella scena la gente si riconosce e per questo può ridere": parole di Alberto Sordi, di qualche giorno fa. Voi direte: "Cosa c’entra con Molière?". C’entra, perché ciò che abbiamo visto ed applaudito all’Auditorium, non era il solito Scapino. Se lo fosse stato, forse non ci avrebbe restituito quella verve di satira e pettegolezzo che ebbe nella Francia del Seicento.

Il regista, un geniale Sergio Fantoni, si è avvalso di una traduzione liberissima firmata Manlio Santanelli. C’è un modo migliore di rendere Napoli che con il napoletano? Giusto un condimento… i personaggi infilavano qua e là, con nonchalance, uno "scugnizzo" magari "cacagnato".

E questo è niente! A un certo punto, Paolo Bonacelli non sembrava più Scapino, ma Totò con una delle sue quisquilie. Oibò! Si somigliano un po’ tutti questi nobili seguaci dell’arte di arrangiarsi. Ecco sul palco l’andazzo di ogni tempo, il moto perpetuo di una società senza uscita per i tanti Scapini del mondo. E con temi sempreverdi come Amore, Giustizia e Dio Denaro, la lingua deve essere lo specchio che riflette un contenuto che si evolve.

Santanelli è andato oltre: alcune battute non esistono nel dramma originale, e il finale prosegue rispetto al punto in cui si era fermato Molière. Ragioniamo e sentiamo in modo diverso; ciò che allora era il presente, ora è il passato. Sarà banale dirlo, ma spesso, nel darlo per scontato, ce ne dimentichiamo. Una volta, l’epilogo delle commedie era bene o male lo stesso. Due giovani, per amarsi, dovevano avere il medesimo ceto sociale; e difatti, nell’ultimo atto, un finto annunciato coup de théâtre rimetteva a posto ogni cosa. Questo allestimento ha spostato l’accento sul "dopo": i padri han fatto pace coi figli e ritrovato le figlie, che credevano perdute, mentre i giovani vanno a festeggiare in attesa di sposarsi… ma Scapino rimane solo, come all’inizio, con la sua sigaretta. Per lui nulla è cambiato.

Così, fra un cast di prima scelta e musiche napoletane riarrangiate da Paolo Terni, "Le furberie di Scapino" hanno smesso di essere la "farsa all’italiana" che tanto andava di moda nella Francia di Molière e del Re Sole. Per noi hanno avuto il gusto dolceamaro della "commedia all’italiana". Ma quella di una volta, non le baggianate di oggigiorno…

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