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QT n. 6, 24 marzo 2001 Monitor

Di un uomo che vedete fatene mille

E’ proprio vero: "Qui basta una sedia per creare un trono". Quello di Shakespeare è il teatro del mondo, l’universo dei vizi e delle virtù; gli attori, "semplici zeri" che mettono in moto le forze della nostra immaginazione. "Re Lear" ha chiuso con i suoi strali al Potere la bella stagione dello Zandonai, ed è forse il testo più politico del drammaturgo inglese.

A dirigerlo, il tocco delicato ma da bisturi di Glauco Mauri: quasi quattro ore trascorse senza pesare un solo istante, fra poesia, politica e filosofia. Le scene tradiscono il lavoro certosino in tutto ciò che è visto o sentito, dalle botole al didjeridu, strumento rituale degli aborigeni australiani, dal Matto ventriloquo alle "note" d’una sega come nella prima musica folk.

Mauri ci ha immersi nella storia, in un’epoca qualunque. All’inizio il mantello di Lear, dispiegato come una grande carta geografica, satura il palco; v’è ritratta ogni parte del regno e forse, se guardassimo meglio, scorgeremmo noi stessi in "un piccolo sgorbio di cifre". Qui i personaggi si perdono, si cercano, si ritrovano. Solo tre di loro sopravvivono: il re di Francia, vedovo di Cordelia; Edgar, che rinuncia persino al nome dopo il bando del padre; il duca d’Albany, il solo a conservare la ragione. Il Potere tenta, seduce, padri contro figli, ma non è sazio finché non uccide. L’eclissi che lo annuncia è un paravento comodo agli uomini per negare il male ch’è in loro. "Giusti" sono i folli come Lear, che getta una corona d’oro per una di fiori ed erbe selvatiche, si veste da Matto travestito da Re, mentre un saggio buffone gli fa da coscienza. La carriola su cui processa sacchi di iuta al posto delle figlie che l’hanno scacciato, è la stessa in cui accoglierà la salma innocente della sua Cordelia.

Mauri rende i personaggi non solo anima ma corpo, non solo voce ma gesto.

Oltre a lui e a Sturno (Re e Matto), ottimi l’Edmund di Graziano Piazza, la Gonerilla di Paola Benocci e soprattutto il Gloster di Piero Sammataro e il Kent di Gianni De Lellis.

Dispiace che il loro successo sia stato turbato mesi fa da un episodio mondano, che tuttavia va raccontato: Vincenzo Bocciarelli, in piena tournée, ha preferito tradire il teatro per la Marini e Albertazzi; il regista, profondamente amareggiato, ha dovuto sostituirlo e così Sandro Palmieri ha imparato la parte in soli quattro giorni, divenendo lo splendido Edgar che ci ha rapiti con la sua padronanza della voce.

Pare quasi uno scherzo del destino, ora, la celebre battuta del buffone: "Solo i matti e gli infelici vedono ancora miracoli sul palcoscenico della vita".

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