Venezia: undici film
C’è guerra nel mondo e c’è guerra all’82a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Guerra evocata, raccontata e mostrata in forme diverse.
In Memory la guerra ha consumato l’infanzia della regista attrice ucraina Vladiena Sandu, che all’età di sei anni, dopo il divorzio dei genitori, si trasferisce dalla Crimea a Grozny, in Cecenia. Ed è di quella guerra che Vladlena parla: dei vicini uccisi, di Grozny trasformata in campo di battaglia, della fame e delle privazioni, della madre gravemente ferita, di attacchi armati e della fuga. il tema dei bambini in guerra non è nuovo, ma questo film lo propone mescolando immagini di fiction, documentarie, teatro e videoarte, con alla base la voce narrante della regista. Ne esce un lavoro ibrido, autobiografico e poetico, di una lucidità e potente nitida precisione nel sottolineare anche assurde contraddizioni. Un film faticoso anche, ma che rimane fortemente impresso nella memoria, raggiungendo l’obiettivo prefigurato senza scene strazianti o shoccanti.

Di tante guerre si parla poi nell’ottimo documentario Cover Up di Laura Poitras e e Mark Obenhaus, che ripercorrono la carriera del giornalista Seymour Hersh che nella sua carriera ha realizzato reportage rimasti nella storia del giornalismo e del mondo occidentale. È sua infatti l’indagine sulle pratiche di sterminio dell’esercito americano in Vietnam, nata approfondendo il caso del villaggio di My Lai. Sua la rivelazione dell’implicazione della CIA nel colpo di stato di Pinochet in Cile nel 1973. E così di seguito a denunciare un’infinita sequenza di segrete malefatte Usa, fino allo scandalo del carcere di Abu Ghraib, e la denuncia dell’inumano trattamento dei prigionieri da parte dei soldati Usa. E non è finita: all’età di 88 anni Hersh ancora denuncia, pur col tono amaro della constatazione dell’impunità sistematica che ci ha portato a dove siamo oggi. Il film è un prodotto di alto livello come ci ha abituato la regista che ha vinto il Leone d’oro nel 2022 con Tutta la bellezza e il dolore. Come al solito gli Usa fanno le schifezze e il suo cinema le svela. Una forma di nemesi? Forse, ma meglio che niente.
Ancora guerra in A House Of Dynamite di Kathryn Bigelow, che racconta del lancio di un missile nucleare di provenienza ignota sul territorio degli Stati Uniti. La corsa contro il tempo per stabilire chi ne sia responsabile e come reagire è ovviamente adrenalinica e, raccontata da prospettive diverse, si dipana progressivamente sottolineando la stupefacente probabilità di una concreta minaccia devastante, l’impreparazione della macchina da guerra più potente del mondo e l’inevitabilità di scelte catastrofiche. Insomma, una appropriata e contingente denuncia contro gli armamenti e i riarmi, assurdi e autodistruttivi per l’offesa ed insufficienti per la difesa. Perché viviamo in una casa di dinamite e basta una scintilla…
E poi c’è The voice of Hind Rajab di Kaouther Ben Hania, che ricostruisce con gli audio originali la vera storia di una bambina di quasi sei anni intrappolata in una macchina a Gaza che chiede aiuto alla Mezzaluna rossa. Il caso cinematografico dell’anno per le sue implicazioni umane e politiche contingenti. Un film potentemente drammatico che unisce umanità, denuncia politica e arte cinematografica.

La Mostra propone ovviamente tantissimo altro, col problema però, soprattutto per quanto riguarda le commedie e certi film di genere, di farli apparire superficiali ed inappropriati, se accostati ai primi dal ben altro peso specifico. È il caso ad esempio di The Smashing Machine, storia del lottatore Mark Kerr, leggenda delle arti marziali miste, che presenta il solito arco narrativo di ascesa, declino e riscatto. Forse il regista Bernie Safdie (che in passato aveva realizzato il notevole Diamanti grezzi) voleva emulare il collega Darren Aronofsky, che con The Wrestler aveva vinto il Leone d’oro, ma il film, per quanto vedibile, risulta convenzionale e inadatto al concorso della Mostra.
Altra commedia, brillante, Usa è Jay Kelly di Noah Baumbach. Qui un famoso attore cinematografico e il suo devoto manager, in un vorticoso viaggio attraverso l’Europa, si ritrovano costretti a fare i conti con le scelte e i rapporti del passato. Protagonista un George Clooney straripante, al cubo nella versione di sé stesso e dei suoi piacioni personaggi cinematografici. Forse un po’ troppo. E anche se la commedia nell’insieme funziona e diverte, i temi del ripensamento della propria vita (per altro super agiata e di successo), le scelte, gli errori commessi risultano un po’ ombelicali, troppo lievi e poco urgenti nel contesto del Festival.
Quasi al suo opposto, Father Mother Sister Brother di Jim Jarmusch è una commedia essenziale, costruita sui dettagli, i silenzi e le sottrazioni. Tre episodi, ambientati in Usa, a Dublino e a Parigi, per mostrare le relazioni tra figli adulti e genitori piuttosto lontani, e tra fratelli. Ritratti intimi osservati senza esprimere giudizi, in uno stile che ricorda per certi versi i primi film di Jarmusch. Con sospensioni, vuoti, assurdità, ricorrenze e una precisa vena ironico/malinconica di fondo. Impeccabile la messa in scena e la recitazione (e colpisce trovare Mayim Bialik, la Emy di Big Bang Theory, in una parte che non è tanto diversa da quella del noto telefilm), per un film che non è un capolavoro ma certo un intelligente e piacevole esercizio di stile, quello unico di Jarmusch, appunto.
Bugonia di Yorgos Lanthimos è il remake di un film sudcoreano del 2003. In effetti non è strano pensare che ci siano punti di contato tra i deliri della cinematografia di quel paese asiatico e quella del regista greco. In questo film abbiamo due giovani con l’ossessione dei complotti che rapiscono la potente amministratrice delegata di una grande azienda, convinti che sia un’aliena intenzionata a distruggere la Terra. Tra la fantascienza di serie b e certi film di Robert Rodriguez, anche qui si mescolano storie e personaggi strampalati e improbabili, con elementi surreali e demenziali, conditi con scene splatter. A salvare il tutto certa paradossale ironia e un certo sguardo fantascientifico a rivelare una qualche grezza consapevolezza del nostro presente.
Un anno di scuola di Laura Samani è ambientato a Trieste nel 2007. Protagonista è Fred, diciottenne svedese esuberante e coraggiosa, che arriva in città per frequentare l’ultimo anno di un Istituto Tecnico. Unica ragazza in una classe di soli maschi, catalizza in particolare l’attenzione di tre amici: Antero, Pasini e Mitis, sconvolgendo il loro equilibrio e l’amicizia. Racconto di adolescenti che, tra le sfide che comporta il crescere, include anche quella di essere giovane donna in un mondo dominato dagli uomini. Un po’ schematico e a tesi, per fortuna il film presenta una giovane protagonista in un contesto maschile, cui approcciarsi senza rinunciare alla propria identità e rifiutando il ruolo di appendice di maschio. Insomma, una commedia giovanile che riflette con onestà la grezza grazia e le difficoltà di adolescenti d’oggi.

La gioia di Nicolangelo Gelormini e Late Fame di Kent Jones, sono due film che presentano maniere molto diverse di raccontare il rapporto di sfruttamento dei giovani verso gli adulti nella nostra realtà. Nel primo Gioia è un’insegnante di liceo che non ha mai conosciuto l’amore, se non quello opprimente dei genitori, con cui vive ancora. Tra gli studenti della sua scuola c’è Alessio, un ragazzo, che usa il suo corpo per rimediare qualche centinaio di euro. Tra Alessio e Gioia nasce un legame proibito. Ma il desiderio di un riscatto sociale di Alessio distrugge violentemente tutto. Interpretato da due star nazionali come Valeria Golino e Jasmine Trinca, La Gioia risulta un film senza nessun imprevisto o scatto, di cui si sa già tutto dalla prima inquadratura, privo della capacità di andare oltre una messa in scena convenzionale. Al su opposto, molto più ricco di sfumature e risvolti è Late Fame, che racconta di un dimenticato poeta newyorkese, ora impiegato in un ufficio postale, riscoperto da un gruppo di giovani ammiratori. Ne esce un ritratto amaro sulle trasformazioni dei tempi, dei sogni e delle passioni sullo sfondo di una città, in cinquanta anni, emblematicamente profondamente cambiata. Una città, che con i suoi abitanti, è passata da miserabile coacervo di marginalità e furiosa creatività, a ripulito scenario turistico, abitato da pochi ricchi che se lo possono permettere. Insomma la potente dicotomia tra la vita, l’esperienza, la sensibilità di chi ha vissuto il vero fuoco della passione, della ricerca, dell’arte, dell’impetuoso bisogno di esprimersi, e la nuova generazione di giovani cresciuti in un sostrato di garanzia che non gli da spessore ed identità, se non quella apparente, copiata, scimmiottata, superficiale, disonesta che recitano anestetizzati davanti ai loro smartphone. .