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Rojava: il tradimento delle speranze curde

Walter Ferrari, Kamber Mazlami

È bastato un colloquio telefonico con Trump, il 6 ottobre scorso, per dare il via libera al piano di invasione del nord della Siria, da tempo coltivato dal presidente turco Erdogan. L’obiettivo sbandierato è quello di costituire una “zona cuscinetto” oltre il confine turco, eliminando la scomoda presenza curda per reinsediare nella regione i profughi siriani rifugiatisi in Turchia in questi tremendi anni di guerra. Un esperimento già iniziato con le operazioni di pulizia etnica eseguite lo scorso anno ad Afrin, dove la popolazione curda è stata sostituita appunto da profughi siriani non certo originari di quell’area.

Ovviamente l’obiettivo principale è l’espulsione, appunto, dei curdi dalle loro terre, in barba al fatto che fino a ieri erano l’avanguardia sul campo della coalizione occidentale che combatteva l’Isis e che con i suoi diecimila caduti ha contribuito in maniera determinante a liberare l’intera regione settentrionale della Siria dalle milizie del califfato. Non che ci si debba meravigliare per il fatto che Trump abbia scaricato l’alleato per lui più scomodo nella guerra al califfato, per sostenere una Turchia che rappresenta l’alleato storico e potente membro della Nato, sempre pronta a rivolgersi alla Russia di Putin.

Infatti le forze democratiche siriane e le formazioni curde che ne fanno parte non si sono limitate a combattere l’Isis, ma hanno anche dato vita a delle forme interessanti di autogoverno, che oggi rappresentano probabilmente il germe più fecondo per immaginare un mondo diverso da quello disegnato in questi decenni dal capitalismo neoliberista. Una speranza e una domanda di cambiamento che, come si vede da quanto sta succedendo in Cile, è tutt’altro che spenta e tantomeno vinta. Purtroppo anche l’Unione Europea in questo quadro internazionale non rappresenta alcunché di diverso e la sua impotenza va attribuita anche alla scelta fatta di finanziare lautamente Erdogan per bloccare i migranti, permettendogli così un facile ricatto sulla pelle dei profughi.

Il presidente turco, con l’operazione eufemisticamente chiamata “fonte di pace” persegue però anche altri obiettivi, primo fra tutti isolare all’interno il partito filo-curdo Hdp, ma anche completare la vasta repressione interna nei confronti delle forze laiche e democratiche turche. La falsa tregua concordata da Trump non ha impedito all’aviazione turca di continuare a bombardare e alle milizie ex Isis di accanirsi anche contro i civili inermi, e ancora una volta il tradimento americano ha costretto i curdi a gettarsi nelle braccia di Assad, trasformandoli così definitivamente in “nemici” dell’Occidente e della democrazia.

Si tratta dello stesso copione con il quale, ormai 15 anni fa, si sono tradite le speranze del popolo palestinese (non a caso quello che esprimeva le posizioni più laiche e democratiche dell’intero mondo arabo), gettando la popolazione di Gaza nelle braccia di Hamas.

Di fatto con il successivo accordo Erdogan-Putin, che ha ratificato la parte già militarmente raggiunta degli obiettivi perseguiti dal Presidente turco, è stata messa la parola fine all’esperienza del Rojava quale progetto politico per un futuro diverso. Proprio per il valore scardinante di quell’esperienza nei confronti dei rapporti etnici e culturali tra curdi, yazidi e siriani, dei rapporti sociali e di genere che hanno visto scalzare il dominio delle vecchie aristocrazie e liberare le donne dalla loro secolare sottomissione, dando vita ad una società paritaria e democratica, non c’è da stupirsi del sostegno a Erdogan da parte di leader religiosi come l’Imam Breigheche.

Certo sono state vergognose le sue affermazioni pubblicate dal Trentino del 13 ottobre scorso secondo le quali quella turca sarebbe stata “un’azione che non sta provocando alcuna carneficina” e che sotto attacco erano “miliziani estremisti e terroristi”, alle quali giustamente hanno risposto indignati Vincenzo Passerini e Paolo Tessadri.

Ma le ragioni profonde di quelle affermazioni vanno ricercate proprio in quello scardinamento delle gerarchie che le comunità del Rojava, sotto la guida delle unità curde di autodifesa popolare, hanno operato in questi anni.

Hevrin Khalaf

In fondo ogni religione, laddove esce dalla sfera privata e pretende di informare a sé i rapporti sociali, si trasforma in potente elemento di conservazione delle gerarchie e stratificazioni sociali e di genere consolidate, esercitando un ruolo importante di sostegno del potere costituito. Nonostante ciò occorre evitare di cadere nella trappola della levata di scudi antiturca della destra, fondata sull’islamofobia, ma tendere la mano a quei settori laici e democratici della società turca che contrastano il fascismo di Erdogan. A condannare l’offensiva di Erdogan dovrebbe bastare la barbara uccisione, da parte delle sue milizie composte da ex combattenti dell’Isis, di Hevrin Khalaf, curda, femminista, non violenta e in prima linea a difesa degli oppressi.

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