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QT n. 1, gennaio 2015 Cover story

Sessi in transito

Maschi e femmine che traghettano verso l’altro sesso per riprendersi l’identità che gli appartiene. In bilico tra stereotipi e voglia di riscatto.

Due donne molto belle parlano fitto al tavolino di un bar. Hanno lineamenti del viso sensuali, marcati da un trucco curato. Indossano abiti morbidi che lasciano intravvedere seni formosi. Un timbro di voce maschile esce dalle loro labbra. Getto lo sguardo sulle scarpe che calzano ai piedi, all’incirca un 44. Per queste caratteristiche androgine immagino siano donne trans. Sto osservando solo il loro involucro esteriore e mi stuzzica la voglia di conoscerle oltre l’apparenza. So che per afferrare i fili delle loro esistenze devo guardarle da un’altra prospettiva, intaccando la crosta dei miei pregiudizi.

Non ho cercato le persone transessuali che lavorano nel buio della notte, ma quelle che escono alla luce del giorno per recarsi in ufficio o in azienda. Per capire come vivono la loro quotidianità in una società che le considera ambigue e aliene perché viaggia su un unico binario di genere: maschile e femminile.

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“Capisci che ne ho piene le ovaie di giornalisti che bussano per stigmatizzarci? E magari devo pure spiegare loro che un maschio diventato donna si declina al femminile, mentre una donna che è diventata uomo al maschile”- si sfoga Mirko, che coordina un circolo di transessuali. Non è facile fare breccia fra queste persone (sono 50.000 in Italia), perché sentono il peso di troppe etichette. Quando sondo il terreno fra la gente comune, non posso dargli torto. Dici trans e rimbomba nitido il nome di Brenda, la prostituta coinvolta nel caso Marrazzo. Qualcuno ricorda le sue fattezze fisiche e descrive nei dettagli le sue labbra gonfiate. Altri snocciolano i nomi delle varie soubrette che spopolano in tv. Poi cade l’oblio. Percepisco che non devo avere fretta per connettermi con i trans. Prima devo conquistare la loro fiducia. Dopo molti “Le faremo sapere” e altrettanti squilli a vuoto, con l’aiuto di qualche intermediario Sabrina, Marika e Cori accettano di aprire la porta della loro vita per condurmi in questo viaggio.

Fuori dal guscio

Cori Amenta

“Non c’è mai stato un momento della mia vita in cui io mi sia sentita Franco, - esordisce Marika, una ragazza trentenne che fa la parrucchiera - forse di lui rimane traccia nella mia voce”. Mentre scorrono le parole di Marika, osservo i lineamenti del viso delicati, sfumati con un filo di trucco. Ogni tanto sistema la sua chioma bionda accavallando le lunghe gambe.

Colgo quanto sia precoce nelle persone trans la percezione di appartenere al sesso opposto. Sei Franco ma ti piacciono le bambole e cerchi la compagnia delle altre bambine. Capisci che qualcosa non gira nel tuo ingranaggio. Ti fa schifo giocare a calcio e sei a disagio quando varchi gli spogliatoi o i bagni maschili. Eppure attorno tutti premono perché tu sia Franco. “Avevo una forte dissociazione fra quello che sentivo dentro e quello che la famiglia e la scuola volevano che fossi. Subivo una sorta di lavaggio del cervello perché la società è basata sul dualismo uomo-donna. Ero un pesce fuor d’acqua, poiché la mia sensibilità era marcatamente femminile. Ciò veniva percepito all’esterno e i compagni mi prendevano in giro bollandomi come femminuccia” - racconta Sabrina, una giovane trentina dai modi eleganti e sobri, con un filo di perle al collo e una voce profonda.

C’è un altro momento impresso in modo indelebile nei racconti delle loro vite, la fase della pubertà e dell’adolescenza, quando gli attributi sessuali esplodono e ti dicono chi sei per gli altri. Allora il dolore dentro pulsa più forte e vorresti cancellare queste appendici, nascondere sotto i vestiti il seno o il pene. Dare un colpo di spugna al ciclo mestruale. E gridare io sono “l’altro”.

Dentro questa voragine sei smarrito e non capisci cosa ci fai intrappolato in un corpo “sbagliato”. “All’inizio - continua Sabrina - credevo di essere un ragazzo gay, perché ero attratto dai maschi. Verso i 18 anni ho fatto sesso con uomini, ma qualcosa non mi tornava, io questi rapporti non li volevo. Un gay prova attrazione fisica e sentimenti per lo stesso sesso, un trans sente di non essere nel genere giusto”.

Avverto nelle loro storie un punto di non ritorno, quando la sofferenza dentro si fa incontenibile e rompe gli argini. Allora inizi a intaccare il guscio e provi a uscire fuori. Perché ti è più chiaro chi sei. Perché vuoi mettere in sintonia la tua anima col tuo involucro esterno.

Il travestimento segna spesso quest’uscita dal guscio. È come una catarsi. Prendi coraggio e cominci a vestire i panni del sesso che hai sempre sentito tuo.”Iniziai ad andare in discoteca travestendomi da donna - narra Sabrina - ed era la prima manifestazione della mia vera identità. Questa fase durò circa quattro mesi; prima portavo una parrucca, poi feci le exstension ai capelli. Vestita così, mi sentivo davvero bene. Da lì quello che non mi tornava divenne chiaro”.

Transiti

Cori Amenta. Foto Giovanni Squatriti

Intervistare le persone transessuali è un’impresa delicata. Devo fare parecchi aggiustamenti in corso d’opera. Più le conosco e più imparo a scegliere con cura le parole, che possono diventare un bisturi se affondo troppo la lama. Perché chi traghetta al sesso desiderato, vuol far girare in modo normale la sua vita e teme di essere bollato come fenomeno da baraccone. Perché ogni transito si porta dietro un bel percorso di sofferenza che si racconta solo a chi ha un po’ di empatia.

Perché non basta aver capito chi sei per dare un nuovo indirizzo alla tua vita: c’è tutto un mondo fuori che deve riconoscerti. “Per essere credibile all’esterno ho fatto la terapia ormonale, estrogeni ed antiandrogeni ti aiutano - spiega Sabrina -. Il grasso corporeo si distribuisce in modo femminile, si gonfia il seno, aumentano i fianchi, gli zigomi si arrotondano. Poi ho fatto un intervento di rinoplastica e qualche filler riempitivo in viso. La terapia ormonale è dura: stavo male, ero aggressiva, avevo continue crisi di pianto e sbalzi d’umore”.

Avverto in questo viaggio alla ricerca della propria identità quanta forza si deve avere dentro di sé per superare mille ostacoli. Una strada in salita vissuta spesso in solitudine, perché il transito ha l’effetto di un terremoto anche in chi ti sta vicino. “Gli altri sono più disorientati di te e non sanno come rapportarsi. - rammenta Marika - Oltre agli ormoni facevo l’elettrocoagulazione, sedute dolorosissime con l’ago per togliermi la barba. Poi arrivavo a casa e i miei mi davano una mazzata perché mi chiamavano al maschile. Mia madre dopo 15 anni ha metabolizzato la cosa, per lei sono sua figlia. Mio padre l’ho dovuto affrontare di petto e da allora mi chiama Marika. Con mia sorella il rapporto non esiste, forse perché con la transizione c’è qualcosa d’irrisolto. I miei zii invece mi adorano e mi accettano”.

Limbo

Uscire dall’ombra e mettere in sintonia la tua immagine con quello che pulsa dentro di te, è un traguardo importante. Ma non è sufficiente se questo cambio anagrafico non è stampato sui tuoi documenti. In Italia, con la legge 164/82, ti rilasciano una nuova carta d’identità solo se decidi di demolire gli organi sessuali. Un uomo trans dovrà sottoporsi a un intervento per togliere l’utero, mentre una donna trans dovrà eliminare i testicoli. Il tutto dopo l’approvazione del Tribunale e una lunga trafila di controlli medici e psicologici. Chi decide di non passare sotto i ferri facendosi magari ricostruire una vagina o un fallo, con i problemi di funzionalità annessi, rimane in un limbo. Nessuna delle donne che ho contattato si è sottoposta a quello che molti attivisti dei diritti trans definiscono “l’obolo cruento”. “Lo Stato castra una donna trans e toglie l’utero ad un uomo trans perché ci vuole sterili. Ti dà il via solo se non puoi riprodurti. Ma io non accetto questa violazione di liberta e continuerò a lottare perché il cambio anagrafico sia possibile anche senza la riattribuzione chirurgica del sesso, come avviene già in Germania e in altri paesi civili” - sbotta Sabrina.

Vivere in un limbo comporta però un bell’intralcio nella gestione burocratica, perché un’identità non riconosciuta legalmente va continuamente rimarcata e rende meno facile la vita. “Anche se non faccio mistero della mia identità, - puntualizza Marika - vorrei poter andare a votare tranquilla, senza dover dire ‘Sono una donna trans’. Tempo fa in un pronto soccorso mi volevano ricoverare, ma non me la sono sentita di discutere perché per legge dovrei finire in un reparto maschile”.

Stigma

Se il tuo nome combacia con quello che sei, ma non è scritto sulla carta d’identità, s’inceppa anche il ruolo che hai fuori. Sei Sabrina e ti presenti a un colloquio di lavoro per un posto d’impiegata, ma i tuoi documenti parlano al maschile. La tua identità ibrida balza in primo piano e mette in ombra quello che sai fare. “Mi presentavo professionale, sobria e carina, ma non bastava - ricorda questa giovane trentina -. Mi è capitato che qualcuno mi dicesse: ‘Come ti permetti di presentarti a questa selezione?’”. Poi Sabrina si è tuffata nel lavoro autonomo, dove i clienti la valutano solo per il buon servizio che offre come imprenditrice.

Colgo nelle sue parole un bel lavoro di analisi, una sicurezza che viaggia oltre il giudizio degli altri. Non nasconde il suo transito, ma lo vive alla luce del sole, anzi ne fa un tratto distintivo.

È coriacea Sabrina. Intuisco da dove deriva la sua scorza dura quando mi apre la porta del suo passato: capita che i pregiudizi o il disprezzo del mondo creino qualche crepa dentro. Allora pensi di essere sbagliata e la transfobia ti assale. A volte può farti persino affondare: “All’inizio non avevo fiducia in me. Non credevo che avrei potuto fare una vita normale nel lavoro o nelle piccole cose. Quello che fuori vogliono farti fare è il marciapiede a vita. È facile rimanere intrappolati in questo binomio se non hai forza sufficiente.

Hai davanti una strada in salita, che richiede un grosso investimento psicologico, ma anche economico. Tutti ti remano contro. Era così forte il desiderio di diventare Sabrina che per un po’ ho accettato questo compromesso che non consiglierei a nessuno. La prostituzione mi ha resa glaciale e meno dipendente dagli uomini, che spesso cercavano da me uno scossone, una cosa estrema. Ho passato un anno in una comunità per tossicodipendenti perché la droga ti serve per crearti un’ armatura”.

Ménage di coppia

Mentre sorseggiamo un caffè, parlo con Marika del fatto che un maschio trans, nato donna e diventato uomo, è poco riconoscibile all’esterno. Insomma, passa molto per uomo. Nella donna trans invece intuisci il suo passato, non solo per i tratti mascolini, ma perché punta molto sulla femminilità. Mentre scorrono le mie parole il viso di Marika s’infiamma, poi sbotta: “Ho buttato volentieri la mia virilità per inseguire il sogno di diventare donna e ora non voglio essere la casalinga di Voghera ma sfogare la mia femminilità a 360 gradi”.

Percepisco quanto siano importanti questi rimandi nella vita di coppia dopo un transito sofferto. Il partner è come uno specchio che riflette la loro identità di donna. “Non riuscirei a stare con un uomo che non mi viva per quella che sono, ho bisogno di queste conferme, anche se ogni giorno questi rimandi mi arrivano sul lavoro o fuori. L’uomo in noi cerca l’ibridazione fra i due generi: una forte femminilità più il fatto di avere il pene” - chiarisce Marika.

È palpabile quanto il passato di una donna trans non si cancelli con un colpo di spugna dopo le cure ormonali. Sei stato un uomo e ora vedi il tuo partner da un’altra angolatura. “Ho un rapporto con le donne di sorellanza, ma rispetto a una donna biologica capisco bene gli uomini perché conosco le trame della loro mascolinità” - precisa Sabrina.

Faccio fatica a carpire qualche aspetto del ménage di coppia. Non voglio invadere la loro privacy e far alzare troppo i muri delle difese, ma Sabrina intuisce subito la mia difficoltà e mentre riformulo in modo impacciato le domande mi pone una questione: “Vuoi sapere se il partner che ci frequenta è un eterosessuale? All’inizio io mi sono fatta troppe paranoie, mi chiedevo se era un etero che cercava in me un’avventura diversa, oppure se quell’altro era un gay che non accettava la propria omosessualità, quindi mi cercava per la mia femminilità. Poi ho capito che non posso identificare un partner con delle caselle perché i gusti sessuali sono davvero vasti. Posso avere un compagno etero, gay o anche bisex”.

Una cosa mi è chiara dai loro racconti: la voglia di vivere un rapporto d’amore intenso e duraturo, non marchiato dallo stigma. Vissuto fuori dall’ombra, senza censure: “Ho tantissime proposte per il sesso occasionale fra quattro mura, lontano da occhi indiscreti, perché suscito il desiderio a mille - commenta Marika -. Trovo l’uomo che magari s’innamora di me perché è aperto, ma poi ha paura di quello che direbbero il padre, la madre o gli amici. L’uomo alla fine si sposa la donna biologica perché vuole dei figli, e una donna trans, se non ha fatto la riattribuzione chirurgica del sesso, non la puoi neanche sposare”.

Mentre chiudo il taccuino dell’intervista, penso al libro di Porpora Marcasciano, una sociologa impegnata nella difesa dei diritti dei transessuali. Pagine dense di storie sulle donne trans dagli anni ‘50 ad oggi. Donne invisibili alla società che sono uscite allo scoperto rischiando il carcere, il manicomio o il confino. Perché fuori nessuno le riconosceva il diritto di essere se stesse. Grazie alle loro lotte, oggi le giovani trans possono esprimersi meglio, ma senza abbassare la guardia, perché la transfobia rimane una brutta bestia. A volte anche per chi le ama davvero.

Si ringrazia per la preziosa collaborazione Antonia Monopoli, responsabile dello sportello trans ALA Milano Onlus.

Cori Amenta: donna, trans, e imprenditrice

Cori Amenta. Foto Fabio Costi

Mentre navigo fra i circoli trans, m’imbatto in Cori Amenta. È una donna fascinosa e raffinata; percepisco nella sua personalità un carisma che scioglie in modi affabili. Cori è una stilista che ha lanciato col suo nome una prestigiosa linea di calzature. Con numeri che vanno dal 35 al 45, perché si ritiene “politicamente corretta”e vuole scarpe che tutte le donne possono calzare, pure le trans.

Le sue collezioni escono sulle riviste patinate e vanno a ruba fra attrici e soubrette. Lei sa di essere un’eccezione tra le donne trans in carriera e lavora duro per rimanere a galla. Si paragona alle donne degli anni ‘70 che faticavano molto per affermarsi in un ruolo sociale.

Cori è stimata nel suo ambiente di lavoro per le sue qualità e capacità. Ha una famiglia che la sostiene e un grande amore al suo fianco. Su di sé però rimane qualche cicatrice del passato, quando il suo nome era Corrado: “Sono nata in una famiglia siciliana che ha vissuto la mia transessualità come un grande tabù - narra Cori -. Ciò ha ostacolato la mia transizione per molto tempo. Erano gli anni ‘80 e non avevo i modelli che ci sono oggi sui media, c’era solo Eva Robin’s. Con il transito ho dovuto ricostruire tutto. Ero una libera professionista come styling, ma dopo questa scelta iniziarono a farmi lavorare sempre meno, senza dirmi in faccia la verità”.

Oggi Cori varca ogni giorno la porta dell’azienda senza avvertire alcuna discriminazione, ma sa che il mondo fuori è feroce nell’appiccicarti le etichette:”Nel quotidiano la società non è pronta e fai i conti con l’ipocrisia. Con le macchine che si fermano e ti urlano ‘Bella di notte’. Con le avance che ti fanno al supermercato, per non parlare della gente maleducata che ti dice in faccia: ‘Questo è maschio!’. I ragazzi in branco sono i più cattivi e ti urlano di tutto; se invece sono soli vorrebbero fare quello che farebbero tutti gli altri”.

Cori è tenace e proprio perché conosce i tentacoli della transfobia ha deciso di combatterla: “Sono la prima donna a firmare un accordo con Arcigay Italia per devolvere dalla vendita delle calzature delle mie collezioni 5 euro contro l’omofobia e la transfobia. Ci sarà un conto corrente trasparente che sarà utilizzato per chi ha problemi d’inserimento lavorativo. Il tutto su www.coriamenta.com oppure su Facebook”.

Prostitute... non solo per vocazione

Porpora Marcasciano

È uno stereotipo comune associare il trans alla sessualità, come oggetto del desiderio che evoca la trasgressione. Oggi la prostituzione è praticata da circa il 30% dei transessuali, non è più l’unica via da imboccare. Spesso però rimane un mezzo necessario per sopravvivere. Il fardello di pregiudizi e discriminazione che circonda queste persone alimenta la loro esclusione sociale.

Le porte occupazionali sono spesso sbarrate, perché il cammino di transizione è messo in discussione dai datori di lavoro. I cambiamenti fisici sono visibili. Suscitano imbarazzo, paura che ledano la rispettabilità dell’azienda. I casi di mobbing sono frequenti, non a caso a Bologna, Milano e in altre città sono stati attivati specifici sportelli Cgil.

Una persona trans intraprende con più facilità professioni non esposte al pubblico, ad esempio come centralinista nei call center. Oppure trova sbocchi nel lavoro autonomo, magari come parrucchiera o estetista, perché è riconosciuto il suo talento in questo campo.

Il grosso intoppo rimane la carta d’identità, perché i tratti somatici non corrispondono a quelli anagrafici. Coloro che non si sono sottoposti agli interventi chirurgici che consentono tale modifica, vedono spesso respinta la candidatura. Ciò crea ostacoli anche nell’affitto di un appartamento, perché appena il locatore apre il documento, che rileva la transessualità, teme che possa essere adibito alla prostituzione.

Incide molto l’accettazione della famiglia. Capita che parecchi giovani vengano cacciati di casa per queste reazioni di vergogna e rifiuto. Un progetto lavorativo elevato dipende anche dal sostegno dei familiari. Oggi i ragazzi hanno più fiducia nel mettere a frutto le loro capacità, ma il dileggio che subiscono fuori può portare all’abbandono degli studi e quindi dei loro sogni.

Sono contenta che si parli di questo tema, perché c’è bisogno di molta informazione. Anche la Chiesa in questi ultimi anni ha avuto un’ingerenza negativa, contrastando il fatto che l’aspetto psicologico di una persona possa prevalere sul corpo naturale”.

Porpora Marcasciano, presidente del MIT (Movimento Identità Transessuale), autrice del libro “Tra le rose e le viole

Le tappe del cambiamento

Intervista al prof. Carlo Trombetta

prof. Carlo Trombetta

Sono solo un chirurgo, ma spero di dare serenità a persone che vivono molta sofferenza. Affondare il bisturi è una delle possibilità per mettere in sintonia quello che sentono dentro con il loro corpo”- esordisce così Carlo Trombetta, che lavora presso la Clinica Urologica dell’Ospedale Cattinara di Trieste.

Parla con fare socievole, rispetto allo stereotipo del chirurgo freddo e distaccato. In 500, uomini e donne, di diversa estrazione sociale, hanno bussato alla sua porta per transitare al sesso desiderato. Non per inseguire un capriccio, ma la loro vera identità.

Come si attua la riassegnazione chirurgica del sesso?

La prima tappa è l’incontro con uno specialista competente, psicologo o sessuologo, che accerta questa disforia di genere, per cui la persona non si riconosce nel proprio sesso biologico. Spesso questa figura tranquillizza anche l’endocrinologo che avvia la successiva terapia ormonale. È da evitare l’abuso di ormoni fai da te, che sono davvero dannosi. Poi si passa al test di vita reale. Ad esempio, una donna che transita al genere opposto, dopo la terapia con testosterone che le ha fatto crescere la barba e cambiato tono di voce, inizia a vivere nei panni del sesso desiderato per un periodo. Infine con il nulla osta del Tribunale potrà iniziare gli interventi chirurgici. Seguirà il cambio anagrafico”.

Quali interventi effettuate?

Nel caso dell’uomo che diventa donna, vengono rimossi i testicoli, che spesso sono già atrofizzati a causa della terapia ormonale femminilizzante. La vagina viene ricostruita utilizzando il tessuto scrotale invertito. La sensibilità è data dalla stimolazione della ghiandola prostatica; inoltre con il tessuto prelevato dal glande, viene ricostruito un neo clitoride. Il tutto permette anche di avere l’orgasmo. Per le donne che transitano al sesso opposto, riusciamo a ricostruire un pene con uretra che permette di orinare in piedi, ma l’erezione rimane un traguardo difficile, possibile solo con l’inserimento di una protesi. A volte queste donne tolgono solo utero, ovaie e seni, senza fare la falloplastica, ed utilizzano un pene posticcio”.

Che problemi insorgono dopo gli interventi?

La transizione è come vivere una pubertà in modo accelerato, quindi è importante un supporto psicologico. Bisogna adattarsi alla nuova fisiologia. Nel caso di un uomo che diventa donna, se prima dell’intervento aveva rapporti anali e non voleva essere toccata davanti, poi con la neo vagina il rapporto muta. C’è inoltre il problema della sterilità: avere figli è un’esigenza naturale che va rispettata. A volte, maschi che diventano donna mi chiedono di crioconservare lo sperma. Ho presente il caso di una donna trans che amava una donna: se avessero fatto questa scelta avrebbero potuto avere un figlio.

C’è poi chi decide di non farsi operare perché ha paura di un intervento irreversibile. Altri con un’elaborazione interiore raggiungono una piena accettazione di sé. Il lavoro dello psicologo in questo è fondamentale, perché a volte ci si ferma al percorso ormonale. Non esiste una risposta univoca e contano molto anche i pregiudizi fuori”.

D’un tratto il professore deve congedarsi, un’urgenza in ospedale lo chiama. Mentre corre via mi dice: “La mia soddisfazione più grande? Quando arriva un messaggio con scritto: ‘Ho avuto l’orgasmo!’”.

Qualche definizione

Travestiti: persone che indossano gli abiti dell’altro sesso scegliendo di volta in volta quale ruolo incarnare modificando la propria immagine.

Transessuali: persone che in modo persistente sentono di appartenere al genere opposto. Vogliono mettere in sintonia la loro identità psicologica con il “sesso anatomico”, quindi intraprendono un percorso di transizione, anche attraverso interventi medico-chirurgici.

Transgender: a differenza dei/delle transessuali, non si sentono imprigionati in un corpo sbagliato e rifiutano l’idea di transizione. Questo termine include tutte le persone che non vogliono essere incasellate nello “stereotipo di genere” binario, maschile e femminile.

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Commenti (4)

trapianto capelli alessia tracia

salve, io ho 40 anni e tra un po inizierola tos.. premesso tutto..
il classico problema è ripristinare una capigliatura femminile. ovviaamente, cn un autotrapianto.. la mia domanda.. è meglio farla prima o dopo la terapia ormonale?? e in caso se dopo, dopo quanti mesi potrei pensare di farlo???
grazie mille

Aperture Mauro

Ho letto con interesse questo articolo che mi ha tolto molti luoghi comuni sui trans che avevo in testa. A volte proprio nei piccoli giornali si trovano bravi giornalisti che scrivono con intelligenza e delicatezza. Un articolo in linea con lo slogan di QT: "vedere quello che gli altri non vedono".

La diversità Iris

strano questo argomento, fuori dalla vita reale eppure esistono anche persone che vivono bene solo cambiando attributi. (se bastasse questo quanti problemi risolti!).
A dir il vero non mi e' mai capitato di avere mai avuto un colloquio con queste persone, non nascondo che per curiosità mi piacerebbe incontrarne uno o una solo per parlarci.

bella esposizione Alessandra

il mio è un commento di persona transessuale come quelle descritte, di "..quelle che escono alla luce del giorno per recarsi in ufficio o in azienda" e trovo il reportage corretto e rappresentativo della situazione, anche se io non ho il 44 di piedi, la voce da baritono e vado a votare fregandomene della carta d'identità anche se ciò crea confusione nei sempre cortesi scrutatori. Bel pezzo, sig.ra Faita!
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