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Sospesa

La vita un giorno decise di sospendermi con un primo angosciante allarme. Un dolore alla fronte simile a un chiodo piantato, di intensità crescente. Si aggiunse confusione mentale, disturbi visivi e olfattivi e ciò mi costrinse a un ricovero d’urgenza in neurologia. In neuro? Trent’anni fa era un reparto sospetto, per i non addetti ai lavori, segnale di follia, di generico esaurimento nervoso. Avevo due bambini piccoli e, pensando a loro, all’arrivo dei medici finsi di leggere il giornale per farmi dimettere e tornare a casa. La neurologa, vista la Tac che andava bene, si convinse che era stata una reazione alla pillola anticoncezionale, iniziata da pochi giorni, a causarmi quella violenta sintomatologia. Quello che avevo rischiato (embolia, ictus, infarto, morte) era descritto nel bugiardino del farmaco, che sospesi immediatamente. Ma il dolore continuò e venne ipotizzata allora una sinusite, vari tipi di emicrania, infiammazioni del trigemino, problemi agli occhi, ai denti, all’ipofisi... Di tutto. Mi addentravo nel terreno minato dei sospetti con l’unica certezza che l’aspetto esteriore grondava benessere.

Incisione di Flavia Decarli.

Poi toccò al braccio destro che iniziò a farmi male così, da un giorno all’altro. In quel periodo avrei voluto giocare a tennis ma quelle quattro racchettate di prova mi causarono un dolore sordo a tutto il braccio. Epicondilite, fu la prima diagnosi. Che sarebbe come dire il callo dello scrivano dopo aver scritto una lettera d’amore. Poi, nonostante etti di unguenti e antidolorifici inefficaci, fu la volta della sindrome del tunnel carpale, della brachialgia, della tendinite... In un crescendo si aggiungevano altre possibilità con la stessa velocità con la quale erano escluse, mentre il dolore aumentava e anche l’inquietudine.

Scrivere con la penna diventò sempre più difficile e doloroso: una morsa mi agguantava il braccio rendendomi sempre più difficili movimenti fini, di precisione come la scrittura. Per diverso tempo si sospettò che fosse un’ernia cervicale inoperabile a provocare quel dolore che mi bloccava il braccio. La risonanza magnetica ancora non c’era e la puntura lombare era ritenuta l’ultima spiaggia. Non rimaneva che consigliarmi il collare da portare diverse ore al giorno e sempre se facevo qualche lungo viaggio in macchina, come passeggero.

Un medico, constatato che non riuscivo più a fare la mia firma, mi disse francamente che dovevo e potevo provare a scrivere con la sinistra, che non era impossibile. Su un quaderno a quadretti cominciai con le aste, lettere e parole, arrivando dopo esercizi metodici, incredula, alla frase. Quello che mi sorprese fu che la mia scrittura mancina era speculare a quella destra. Che ne sapevo? Mi aspettavo tutta un’altra cosa, invece era una copia quasi uguale all’originale. Non una fotocopia, ma stessi segni, spazi, inclinazione delle lettere, allunghi. Già la scrittura mi affascinava di suo perché rivelatrice dell’universo interiore, e l’idea di aver partorito una scrittura gemella rafforzava il mio senso di giustizia innato. Era l’unico momento quasi sano in una complicatissima malattia che i neurologi chiamano “la grande simulatrice”.

Un lustro di sospetti, false diagnosi, pareri contrastanti, esami innocui, altri dolorosissimi che vissi come sospesa, sotto sguardi ironici per malata immaginaria. La solita provinciale che ne approfitta, pensavano i più. Quella che sarebbe nata per fare la principessa, credevano i parenti. Intanto facevo la super donna: figli, lavoro in Provincia, casa da gestire e nessun ascolto del mio corpo, alle sue grida di gabbiano mutilato. Avevo crisi di spossatezza come mi avessero centrifugato, lacrime irrefrenabili che uscivano a fiotti e avevano solo il potere di innervosire la famiglia. Vivevo sospesa, in attesa di giudizio, di rientrare nel mondo dei sani; certa, nonostante tutto, di godere ancora di sana e robusta costituzione. Accadevano cose che erano come domande, ma sarebbero passati anni prima che la vita desse risposte. E che, dopo una guerra in corso da trent’anni, fatico ancora a ritenere mi appartengano.

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