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QT n. 13, 28 giugno 2008 Monitor

Parola di Professore

Concerto di Roberto Vecchioni a Levico Terme: un'esperienza unica, personale. Che ripropone la ben nota domanda: può la poesia salvare il mondo? (Certo che no, risponderebbe il Professore...)

Il tempo inclemente rischiava di rovinare tutto, impedendo lo svolgimento del concerto di Roberto Vecchioni, il 16 giugno, nella splendida cornice all’aperto del Parco delle Terme di Levico. Ed invece lo spostamento all’asciutto del Palalevico non ha tolto la consueta magica atmosfera all’esibizione del Professore. Anche perché è stato proprio lui ad accogliere gli spettatori nel palazzetto come se si trattasse del salotto di casa. Anzi, li ha invitati a socializzare tra loro, perché non si sa mai quello che le canzoni possono combinare. Che magari si scopre che la galeotta "Luci a San Siro" riesce ancora a mettere lo zampino in qualche bacio corsaro.

Il concerto è un crescendo di emozioni che trasfigurano le pareti del palazzetto e ad ogni verso in musica si perde la cognizione dello spazio e del tempo e si vive nella canzone.

Perfino il brano di apertura, la stravecchia e ormai usurata "Samarcanda", cattura l’attenzione, non fosse altro per l’affascinate prologo parlato di Ilaria Biagini, strepitosa voce femminile, oltre che eccezionale suonatrice di pianoforte, fisarmonica, sax e flauto. Il seguito è una collana di perle, infilate una dopo l’altra per più di due ore di esibizione senza pause. Canto e racconto, alternati abilmente tra loro.

E poco importa se su "Stranamore" il Professore incespica, saltando a piè pari un paio di battute o se su "Viola d’inverno" una deficiente si mette a rispondere al cellulare e a litigare con chissà chi, scatenando naturali e giustificatissimi istinti omicidi nei vicini di poltrona. Passa tutto, perfino la ripetizione di alcune battute già sentite durante il tour invernale, perché questi in fondo sono solo dettagli. Avrebbero la loro importanza se un concerto di Vecchioni fosse un’esperienza fedele alle aristoteliche unità di tempo, luogo e azione. Ma questo non è. Perché ogni brano vive di vita propria e ogni volta l’ascoltatore scivola via, vede volti lontani, sente parole smozzicate, dette magari a pugni stretti, e rivive le sue storie, tutte quante, appiccicate in disordine nel flusso di coscienza della sua vita. Per questa ragione è consigliabile assistere ai concerti del Professore da soli. La compagnia è deleteria, in questi momenti, poiché i brani sono singole missive che ognuno riceve e legge nel buio della propria intimità. In questo modo il concerto non è "uno" ma "ciascuno", e i racconti del Professore, irridenti o emozionati, volgari o delicati, sono dialoghi protetti dal segreto del confessionale.

Le nuove canzoni dell’album appena uscito (titolo geniale: di rabbia e di stelle) sentite al concerto sembrano un articolato riassunto di una lunghissima carriera.

E’ possibile trovarvi melodie familiari, senza il disastroso e penoso effetto eco, ma con un accentuato legame intimo tra autore e ascoltatore. Perché se i ritmi de "La ragazza con il filo d’argento" o di "Questi fantasmi" sono nel dna di qualsiasi vecchioniano doc, la loro resa genera un amarcord da brividi. Per non parlare di "Comici spaventati guerrieri", la canzone dedicata ai giovani che non si umiliano a mostrare il culo per lavoro, che riproduce le inequivocabili sonorità di Ivano Fossati.

Eppure l’anima si squaglia quando la voce del Prof è accompagnata soltanto dalla chitarra o dal pianoforte, non solo nell’irraggiungibile "Le lettere d’amore", ma soprattutto in due gioielli d’annata come "Dentro gli occhi" e "Gli anni", proposti in maniera inedita e sconvolgente. Tutto il mondo passa nelle orecchie al suono delle sue parole e quando al sottoscritto, seduto in platea assorto, giunge la delicatezza di "Figlia" l’occhio si fa lucido e tornano alla mente i versi di una quattordicenne ispirata che scriveva sui banchi di scuola "ora ho capito che il vero modo per combattere l’ingiustizia è perdersi tra sentieri ombrati e tramonti ambrati, e vivere così la nostra giovinezza".

A questo punto rimane solo una domanda: può la poesia salvare il mondo?

Certo che no, risponderebbe il Professore con un mezzo sorriso. Ma questo non è di sicuro un buon motivo per smettere di scrivere.

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